L’immagine dell’archetipo della desertificazione

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Gli artigli del cemento armato affondano sul greto del fiume Salso, l’antico Hymera invalicabilis dei Romani, le sui sponde al confine tra Caltanissetta ed Enna erano state finora ricongiunte dal ponte del 1553 voluto da Carlo V, annoverato nel ‘700 tra le meraviglie della Sicilia insieme all’Etna e alla fonte Aretusa di Siracusa (un monte, una fonte, un ponte), distrutto nel luglio del 1943 dai tedeschi in ritirata e poi ricostruito.

Oggi sul greto del fiume Salso, spesso prosciugato dalla siccità, il ponte è scavalcato dal viadotto Capodarso, 2210 metri su piloni di cemento armato che sfregiano il paesaggio delle colline di arenaria, nonostante la presenza della Riserva Naturale Orientata Monte Capodarso e Valle dell’Imera meridionale.

Un raccordo di autostrada che ferisce il paesaggio contemporaneo, perentorio nel segnare le priorità dell’economia generica su quelle della valorizzazione dell’ambiente naturale, inequivocabile nell’aridità dei suoi materiali e dei suoi colori.

La fantasia dei posteri forse potrà vederlo come un serpente acquatico che si snoda lungo il fiume dopo averlo prosciugato, divinità della desertificazione che sguscia tra le pareti delle gole di arenaria su cui è possibile ancora scorgere le tracce dei fossili di quando la Sicilia era sommersa nel mare, cinque milioni di anni.

La fotografia di Massimo Dell’Utri potrà essere un documento di questo archetipo della contemporaneità.

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