Un diario. “Ciò che so e ciò che non so”

Tonino Cala
Tonino Cala 143 Views
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“Pensavo di avere finito ma non ho finito. In realtà ho finito. L’inconscio ripete sempre gli stessi meccanismi mentali.  Le stesse cose di sempre. Non tutto si può capire e non tutto si può leggere. L’inconscio è un libro aperto che replica il proprio spettacolo tra bene e male, male e bene. Massimo Recalcati sostiene che bisogna diventare amici del proprio peggio! Umberto Galimberti afferma che bisogna accettare la propria Ombra, l’ombra che è dentro di noi!

Dicono le stesse cose di Freud, Jung e tutti gli altri. L’inconscio non è ideologico, non è di parte, funziona per i fatti suoi, è neutro (id, esso), è sicuramente fluido e fuori controllo. Nel sogno o incubo, che è la stessa cosa, il sognatore si fa libero e non ha freni morali o di altro genere e natura.

L’inconscio non ha un istruttore che lo guida e quindi oscilla tra dramma, tragedia, commedia, comico, ironico, grottesco …. tutti i generi e i registri letterari e artistici.

Esiste una totalità onnicomprensiva dell’inconscio che mi fa pensare all’abisso, al pozzo senza fondo, all’infinito, all’assoluto, a Dio, tra finito e infinito. Dove non c’è un prima e non c’è un dopo.

L’inconscio è acefalo, è senza testa nel suo fluire vitalistico e interrotto, tra vita e morte e viceversa. Tutto è viceversa, sopra sotto, alto basso, bianco e nero, per tutte le infinite coppie degli opposti mentali, con schemi similari che ripetono l’inizio, la scena primaria del trauma.

Ecco perché l’analisi può “curare e guarire”, rivivendo nel presente i traumi del passato. Anche se non si ricorda tutto, l’inconscio ripete la storia personale e, forse, collettiva, per quanto ne sappiamo.

Diceva Jung su Dio: “So e non ho bisogno di credere, so e non ho bisogno di sapere”. In potenza, tutto il sapere è dentro di noi e da qui la reminiscenza di Platone che il sapere è un ricordare ciò che si sa, al di là dei tempi e del tempo, e si fa atto del conoscere. Lo sapevamo e lo sappiamo.

I filosofi greci ci avevano già spiegato la scissione dentro l’uomo con tutte le coppie di opposti possibili. Il due è l’Uno, vive nell’Uno, come la molteplicità è nell’Uno, l’Io plurimo, la varietà e complessità rappresentativa delle nostre proiezioni mentali.

La dialettica separa e diversifica la singolarità, per cui “tutto ciò che è diverso mi appartiene perché è umano”, poteva affermare Terenzio. Sono uomo, donna, trans, etero, gay, lesbica. Per la cultura greco-romana la sessuazione era fluida, non strutturata, non vincolata a un sapere formalizzato e moralistico.

Potenzialmente, si può essere tutto, al di là della maschera che si mette. La psicoanalisi agisce in profondità per togliere tutte le maschere e ritrovare sé stessi, come si è.

Al di là di qualsiasi ragionevole dubbio si legge il proprio romanzo interiore.

Per i greci la separazione bene/male non aveva senso perché il male e il bene o viceversa sono dentro di noi: non esiste una scissione nevrotica per il greco che è consapevole. L’etica sono io? Se tutto è in me non ho nulla da temere. Se lo so! I greci erano mortali e sapevano di essere limitati, prendendo la morte sul serio!

Al di là di tutto, morte o non morte, mi sento responsabile di me stesso e quindi mi basta la consapevolezza di me. Esiste un’etica della responsabilità che mi impegna ad agire con discernimento e senza alcuna arbitrarietà capricciosa e infantile.

Non altro. Non so degli altri.

La punteggiatura del discorso, il taglio del discorso, il mettere un punto nello scorrere del romanzo interiore, tra faglie e feritoie del pensiero corpo.

Circa 12 anni fa, iniziai il mio viaggio analitico con un sogno molto particolare. Mi ritrovavo solo nell’universo e mi guardavo intorno. Non c’era nessuno. Cercavo e non vedevo nessuno. Ero solo nell’Universo. Si nasce soli e si muore soli.

Come il sole che nasce e muore ogni giorno.

Per i primi uomini, il giorno era Uno solo, non c’era differenza tra la luce del giorno e la notte dello stesso: era un continuum luce/buio, dove si stabiliva la naturalità dell’Uno e tutto poteva considerarsi indifferenziato, prima della nascita del linguaggio.

Con la nascita del linguaggio il discorso si articola e pone tutte le articolazioni e le differenze possibili, alle quali abbiamo dato il nome singolare di “io” per distinguerlo dall’altro, il “tu”, l’eteros: quello che è il discorso dell’io plurimo dell’origine.

E con l’entrata nel mondo umano e la nostra umanizzazione, il linguaggio si diversifica e si fa ricco. Nello stesso tempo, con il linguaggio si insedia il discorso nevrotico, finisce il paradiso e nasce la tragedia del pensiero occidentale: il linguaggio che ferisce e il linguaggio che cura, con la sutura nominale delle ferite dell’anima.

E Lacan potrà dire: “Noi siamo abitati dal linguaggio che non conosciamo e come diceva Freud l’io non è padrone a casa sua”, non sapendo l’uomo delle sue pulsioni, dei suoi desideri, del reale che lo abita, della storia che lo narra.

Con ciò ne deriva che noi non ci conosciamo a fondo perché il linguaggio che ci abita ha una sua grammatica che non conosciamo consapevolmente, una grammatica inconsapevole del linguaggio verbale e non verbale che ci chiede tutti i giorni di essere letta: tra passato, presente e futuro, tra tradizione e innovazione, tra scrittura e riscrittura.

Nulla di nuovo, tutto è nuovo. Nulla è più come prima.”

Tonino Calà     

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