Festa della Madonna Addolorata: un volto materno capace di raccogliere le lacrime di un popolo

Francesco Daniele Miceli
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Magna est velut. Magna contritio tua
Il 15 settembre la Chiesa ricorda la Madonna Addolorata: è l’occasione per accendere i riflettori su una delle immagini più forti e identitarie della città. La Madre vestita di nero, che chiude la processione del Giovedì Santo, è molto più di una statua: è un simbolo di dolore, ma anche di consolazione.

In un mondo, quello nisseno, impregnato per secoli dall’odore acre dello zolfo nelle “pirrere” e dalle loro continue stragi, l’immagine dell’Addolorata si specchiava nelle donne dello zolfo. Madri, figlie, spose vestite di nero, ammantate di lutto, che trovavano in quella figura un riflesso della propria sofferenza. Non un simbolo distante, ma un volto materno capace di raccogliere le lacrime di un popolo.

Eppure la storia di questa vara è un mosaico fatto di tasselli, di passaggi e di trasformazioni.
Sappiamo che, ben prima dell’arrivo dei Biangardi, la Madonna Addolorata era già parte della processione sin dal 1840. A differenza di altre città siciliane, dove Maria è protagonista il Venerdì Santo, a Caltanissetta il suo posto fu il Giovedì: il Venerdì è da secoli dedicato, dalla città, al suo “Signore”.

La “Varicedda”, come la conoscono i nisseni, ancora oggi conserva tratti che richiamano però un’altra immagine, successiva: la vara dell’Addolorata dei Biangardi, l’angelo, la croce, i simboli della Passione. Una antica vara del 1896 commissionata dai sinsali, carrettieri, vetturai e venditori di vino ma che non fu accolta senza critiche.

Ci racconta Michele Alesso che, il giorno della sua costruzione, la vara non piacque. Forse troppo innovativa, forse distante dalle aspettative di un popolo che da sempre si specchiava nei propri riti.
Che cosa accadde tra il 1903 — quando Alesso ci consegna l’immagine dell’Addolorata con l’angelo — e il 1973, quando Giuseppe Emma costruì l’attuale vara integrando il volto originale?

Una risposta arriva da una foto d’epoca: una cartolina che ritrae una versione dell’Addolorata diversa da quella dei Biangardi, sempre con l’angelo e la croce, da molti attribuita a Cardinale, discepolo dei Biangardi.
E qui torna utile la memoria di Callari, quasi testimone dei fatti. È lui a metterci per iscritto che, nelle processioni del Giovedì Santo, nel corso dei decenni, si sono alternate altre Addolorate: quella della chiesa di San Giuseppe, quella del Testasecca, quella di Santa Croce… sino a quando nel 1973 venne consegnata alla storia l’immagine a cui tutti siamo abituati.

Un capitolo a parte merita l’angelo. Quello che oggi si conserva in seminario, acquistato tempo fa dalla famiglia Campo e successivamente donato al vescovo. Oggi vediamo un cherubino con le gambe coperte: non la lunga gamba scoperta che il Biangardi aveva costruito, ma un dettaglio che lo scultore Emma, questa volta il padre, modificò, restituendogli pudore e compostezza.
E così, oggi, la Madonna Addolorata ci appare sola. Una madre che porta nel silenzio del suo manto nero tutte le lacrime delle madri della miniera. Una figura che non smette di raccontare chi siamo stati e chi siamo: un popolo che conosce il dolore, ma che trova sempre la forza di rialzarsi.

foto di Umberto Ruvolo

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