Ci sono tradizioni che, anno dopo anno, tornano a fiorire come se il tempo non fosse mai passato.
La città si prepara, le strade si riempiono di luci, i bambini aspettano il luna park, le giostre
scintillano, le bancarelle vengono montate, il traffico per qualche giorno va in tilt e in piazza si
inizia a vedere sempre più gente.
È la festa di San Michele a Caltanissetta, un momento che non appartiene solo alla fede, ma alla vita stessa della città: la vivono i devoti che si raccolgono in preghiera, ma anche chi non crede, chi cerca solo la musica, la compagnia, l’aria di festa che scalda il cuore. Perché San Michele è molto più di un patrono: è identità, radice, simbolo condiviso.
Le sue processioni, quattro in tutto, scandiscono il ritmo tutto l’anno. L’8 maggio, scortato dalla
Real Maestranza, il Santo lascia la Cattedrale per raggiungere la chiesetta in contrada Caldare, sorta
nel luogo in cui si narrava fosse stata trovata la vittima della peste, scacciata dal santo. Qui rimane
due settimane – o almeno due domeniche – prima di fare ritorno in Cattedrale, sempre in
processione. Nel linguaggio dei nisseni si dice che in quei giorni San Michele sia “in
villeggiatura”, quasi in vacanza: un tempo la chiesetta era immersa nella campagna, e i fedeli
amavano immaginare che il Principe celeste godesse di giorni di riposo all’ombra degli alberi.
Poi c’è la grande festa del 29 Settembre. Infine, il 28 dicembre, San Michele torna a camminare
insieme al Redentore e all’Immacolata nella “processione dei tre santi”, memoria grata per lo
scampato pericolo del terremoto di Messina del 1908.
La devozione al Santo si irradia, partendo dal centro storico, fino a raggiungere anche la periferia
della città. Un grande albergo cittadino porta il suo nome, così come ristoranti, vicoli, edicole votive
e quadri sparsi nelle case, tutti recanti la stessa effigie: niente bilancia né spada, ma solo un manto
rosso, il diavolo sotto i piedi, una catena e una lancia portata trionfalmente, con l’indice rivolto
verso l’alto ad indicare la via. Un’iconografia tutta nissena, unica e riconoscibile, che definisce il
culto del “Santo”.
A questa devozione si affianca anche la festa di Niscima, presso la chiesa di Santa Rosalia. Si tratta
di un’antichissima celebrazione popolare: nella domenica successiva alla Pasqua, i due santi,
Michele e Rosalia, vengono onorati insieme con una processione campestre, lunga oltre 4 kilometri,
che affonda le radici nel 1912, organizzata per volontà degli abitanti di Niscima in accordo con i
rappresentanti delle contrade “Zona Pantano” e “Zona Fungirello”.
La piccola statua di San Michele “ Pantano” è in terracotta, realizzata dal prof. Fiocchini, maestro
d’Arte presso l’Ospizio di Beneficenza di Caltanissetta, in memoria di un’altra chiesetta dedicata
proprio a San Michele.
È dunque un’antica devozione che abbraccia non solo la città ma anche le contrade rurali
circostanti.
Per la grande festa del 29 settembre c’è chi sceglie di compiere il “viaggio scalzo”, seguendo il
simulacro a piedi nudi per tutta la durata della processione. Non è soltanto segno di umiltà, ma di
uguaglianza: perché in tempi lontani, quando non tutti potevano permettersi le scarpe, togliersi i
calzari significava annullare le differenze, camminare insieme, tutti uguali, insieme al santo. Oggi
farlo è una preghiera.
E ancora, i segni visibili della festa. Quando San Michele esce in processione, viene adornato con le
ali, la catena d’argento e il manto rosso “della festa”, che sostituisce il più semplice “manto di
casa” indossato quando dimora in Cattedrale. Un cambiamento che non è solo estetico: è il segno
del Principe che si mostra nella sua regalità, che incontra il popolo e lo abbraccia.
Il giorno della festa, in molte famiglie si cucina ancora la carne di maiale con il sugo, e con lo stesso
sugo si condisce la pasta: un’antica usanza che segna la ripresa del consumo del maiale dopo la
pausa estiva. È un piatto che parla di comunità, di tavole imbandite, di generazioni che tramandano
ricordi.
E tra la folla spuntano i “San Micheluzzi”, bambini vestiti da arcangelo, spesso per grazia ricevuta
o per invocarne una nuova. Una scena tenera e solenne insieme, che un tempo si ripeteva persino
nelle processioni delle vare, più di un secolo fa.
Molti hanno ritenuto per tanto tempo erroneamente che San Michele andasse a “sostituire” l’antico
Patrono, il Signore della città. Ma quando in Sicilia si diffondevano a macchia d’olio i Santi
Protettori San Michele fu scelto, senza nulla mai togliere all’antico crocifisso ligneo del Venerdì
Santo. Oggi sono compatroni, Principe e Signore, in un equilibrio che parla di armonia: due titoli
che custodiscono due devozioni immense, complementari, inscindibili.
Attorno al Principe celeste nascono leggende che si tramandano di bocca in bocca. Si narra che una
piuma dell’ala di San Michele, quando Dio lo chiamò a combattere gli angeli ribelli, sia caduta
proprio su Caltanissetta: un segno destinato a far germogliare una terra forte e credente. E ancora, si
racconta che lo scultore Stefano Li Volsi di Nicosia, autore del simulacro, si sia addormentato
mentre modellava il volto e, al risveglio, lo trovò già compiuto, perfetto, scolpito da mano divina.
La statua stessa custodisce un segreto: nella schiena concava si trova un piccolo cassetto che
contiene documenti e memorie della città. Una capsula del tempo che attraversa i secoli e racconta
ai posteri chi siamo stati.
E quando, nella sera di festa, il simulacro attraversa le vie della città, c’è chi giura di scorgere
mutamenti nel suo volto: a volte più sorridente, altre severo, come se il Principe celeste volesse dare
un messaggio a ciascuno.
Così, tra giostre e luminarie, tra carne al sugo e passi scalzi, tra canti e silenzi, Caltanissetta vive il
suo arcangelo.
E mentre le campane suonano e la folla lo acclama, il suo sguardo sembra ripetere la promessa di
sempre: un principe veglia su di voi, e non vi lascerà mai soli.
foto di Umberto Ruvolo

