Otto secoli di stupore

Francesco Daniele Miceli
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Ottocento anni fa, a San Damiano, Francesco d’Assisi scriveva il Cantico delle Creature. Lo fece guardando la natura, osservando quell’immensità di verde che lo circondava, e trasformando la meraviglia in parole.
Quelle parole — semplici, limpide, vere — diventarono il primo testo in lingua italiana volgare, ma soprattutto un canto senza tempo.

Nel Cantico vive lo spirito del semplice, dell’essenziale.
Francesco non spiega, non predica: canta. Canta per il sole e per la luna, per il vento e per le stelle, per l’acqua che disseta e per il fuoco che riscalda.
È una danza cosmica, un inno dove ogni cosa diventa una sorella, un fratello. E se tutto ha un nome, una voce, una presenza, non può mancare una madre: la terra, “la nostra madre”, come la chiama lui, che nutre e custodisce ogni creatura.

Francesco ci insegna che bisogna ancora oggi stupirsi del creato, lasciarsi attraversare dalla bellezza delle cose più piccole.
Ci invita a lodare, a cantare — non solo quando la vita sorride, ma anche quando sembra farsi ombra.

E sì, perfino la morte entra nel suo canto.
Quella che per molti è paura, per lui è sorella, parte dello stesso disegno, inevitabile e per questo da accogliere. “Da lei nessuno che vive può scampare” — scrive.
Ma non c’è amarezza, né rassegnazione: c’è solo la pace di chi ha compreso che tutto è dono, anche la fine.

Ottocento anni dopo, quel canto rimane una voce che attraversa i secoli.
Una voce che ci ricorda di guardare il mondo con gratitudine, di ritrovare il coraggio della meraviglia, di dire ancora “grazie” — per il sole, per la terra, per il tempo che ci è dato.

Perché la Lauda di Francesco è vecchia di otto secoli, ma parla ancora a chi sa ascoltare.
E continua a insegnarci, con parole leggere come vento, che lodare la vita — tutta la vita — è ancora il modo più vero, bello e semplice per vivere.

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