Il “turismo di radici”, immersione nei luoghi in cui si ricostruisce la storia familiare, spezzata dall’emigrazione

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di Giovanna Caruana

Quando Irene Bonanno annuncia «Sai, l’altro giorno ho fatto un sopralluogo!» me la immagino alla ricerca di qualcosa che la colpisca, di qualcosa che potrà poi emozionare gli altri, me la immagino pervasa dalla curiosità di una bimba e dalla determinazione di un vecchio saggio di paese.

Il “turismo di radici” per lei, esperta di turismo relazionale e guida AIGAE, è diventato una specie di missione. Il sopralluogo, un’esperienza: lei stessa vive quelle emozioni, quelle sensazioni che farà poi rivivere, progettando un percorso su misura. Ma con semplicità e senza sensazionalismi.

Tra una polpetta al nero di seppia e una patata al forno, Irene mi racconta di questo sopralluogo surreale, quasi fiabesco, alla ricerca di radici, di legami, di familiarità da recuperare filo dopo filo. Qualche giorno prima si era messa a girare per le strade di un paese sconosciuto, col suo sorriso e la sua voce gentile e diretta, ed aveva iniziato a fare domande – lei, una sconosciuta – a mostrare vecchie fotografie, a fare nomi di persone che non ci sono più.

Nell’unico bar della piazzetta principale, seduti al tavolo e immersi in una lenta partita a carte, tre anziani sorseggiavano il loro caffè. Appena lei si avvicina per domandare, le loro espressioni cambiano impercettibilmente, passando dalla concentrazione al cipiglio un po’ scocciato per l’interruzione della partita. E allora, ecco che costretti da lei a guardare quelle foto, le loro rughe che sono solchi in quelle facce tormentate e diffidenti, si spianano, mostrando sorrisi sinceri e occhi aperti, occhi che vanno a sbirciare tra i ricordi e i vecchi racconti di paese «Sì, me lo ricordo… chissu u canusciu, era u cugnatu di ma cuscina!». E con dolcezza, Irene si fa raccontare la storia nella storia e si fa dire se c’è un figlio, o un nipote, un parente ancora in vita e dove trovarlo.

I rugosi del bar la salutano riprendendo la loro partita e lei torna a camminare, diretta alla casa del cugino. Bussa. Le apre un uomo alto e maestoso che, con lo sguardo fisso su di lei e la voce lenta, invece di rispondere alle sue domande, si mette ad interrogarla. Su di lei, sulla sua vita, sul perché fa quello che fa. Irene risponde come se fosse la cosa più normale del mondo. Finalmente, lui si ritiene soddisfatto e le dice «Spiegami come e quando me li fai conoscere questi cugini dell’America, amunì, entriamo!».

La polpetta al nero di seppia mi ha convinta: lunedì 13 ottobre partirò con lei per farle da assistente e per essere testimone di una incredibile riunione di famiglia!

Arrivate in anticipo nella piazza principale di Cinisi la mattina del 13, ci sediamo nello stesso bar dei rugosi giocatori di carte, con di fronte a noi l’antico Monastero dei Benedettini divenuto nel tempo il Municipio della città e alla nostra sinistra la Chiesa di Santa Fara – due prossime tappe della ricostruzione genealogica. Irene mi fa vedere i documenti della sua ricerca, mentre tra una telefonata e l’altra si assicura che i tempi delle visite verranno rispettati, perché non siano né troppo brevi e né troppo lunghi, ma semplicemente ritagliati attorno alle emozioni che ancora si possono solo immaginare. Ma si sa, l’immaginazione fa grandi cose.

Arriva il pulmino con la coppia americana: Ashley e Robert ci abbracciano appena andiamo loro incontro e già si palpano i primi brividi, quelli legati alle aspettative e alle attese. Arriva col suo caldo sorriso giovane anche Rebecca, che tradurrà in inglese perfetto, ed entriamo nell’atrio del Municipio. Lì andremo a tirare fuori con l’aiuto di Vera, sindaco di Cinisi, i registri delle nascite e l’albero genealogico fatto da Irene.

Ma una sorpresa ci ferma prima di varcare la soglia: Franco, il cugino di Cinisi, si fa avanti verso di noi, Irene lo accoglie con calore, ed io do finalmente un volto a quest’uomo che avevo solo immaginato: un generale dell’esercito in pensione, fisico maestoso e sguardo buono. Il nonno di Franco, Domenico, e il nonno di Ashley, Mariano, erano fratelli! Dei brividi ci percorrono, ma nessuno osa dirlo, e per il momento ancora il ghiaccio non si scioglie. Dentro il bellissimo Monastero, Vera e due volenterose dipendenti comunali ci guidano verso stanze con pavimenti in marmo, volte piene di dipinti, quadri meravigliosi, drappeggi, straordinari cunicoli e cantine per la conservazione dei cibi, scavati nella roccia dai monaci. Poi, nella stanza del sindaco, Ashley è seduta accanto a Franco. Vederli vicini è emozionante, leggono i vecchi documenti, ascoltano, percepiscono quanto sono legati partendo dal legame dei loro nonni, spezzato dall’emigrazione. Ashley si commuove e la tenerezza di Franco è sempre più visibile. Gli chiedo se è emozionato, mi risponde che non lo percepisce perché – e fa spallucce – non c’è mai stato nessun contatto tra loro, sono praticamente sconosciuti, non sente quasi niente. Ma quel quasi è una piccola breccia.

Si va verso la sagrestia della chiesa e lì recuperiamo il registro con l’atto di matrimonio del nonno Mariano e poi andiamo a calpestare il pavimento della Chiesa dove i nonni si sono sposati giurandosi amore e fedeltà. Dobbiamo andare subito al cimitero, prima che chiuda, a vedere le foto dello zio Domenico, fratello di nonno Mariano.

I due cugini viaggiano in macchina insieme e Franco comincia a sciogliersi, perché in fondo sta trasferendo la sua memoria a sua cugina e lei risponde con sincero affetto. Così ogni spazio attraversato diventa la strada dove Domenico e Mariano camminavano, il negozio che non c’è più dove compravano il vino, la porta della loro casa di famiglia che è ancora lì anche se è tutto diverso, più moderno… Al cimitero tutto diventa chiaro, quello è un luogo affettivo per tutti, un luogo in cui la memoria si ferma immobile sulle lapidi e rimane in attesa che qualcuno vada e la recuperi. Il legame è ormai ricreato.

Ashley lo voleva, lo cercava; Franco non lo cercava affatto ma non ha potuto sottrarsi al contatto con la cugina, così desiderosa di sapere, di vedere. Quando ci sediamo al tavolo del ristorante che Franco ha scelto per il pranzo, ci lasciamo travolgere da una marea di parole, di risate, di vecchie canzoni, brindisi, buon cibo. Non ho bisogno di rifare la domanda a Franco: so già cosa mi risponderà. I suoi occhi, come quelli di Ashley, sono pieni di riconoscenza perché Irene anche oggi ha compiuto una delle sue magie.

Giovanna Caruana

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