Un capolavoro di teatro civile “Tutto quello che volevo. Storia di una sentenza” andato in scena a Caltanissetta in matinée per gli studenti delle scuole superiori il 30 ottobre, lodevolmente promosso dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine degli Avvocati con il patrocinio del Comune.
Scritto, diretto e interpretato da Cinzia Spanò, la piece rievoca la storia vera delle due ragazzine romane di 14 e 15 anni che si prostituivano dopo la scuola ai Parioli, per un giro di clienti della “Roma bene”, per avere, come hanno confessato, “Tutto quello che volevo“. Ed è proprio questo il nucleo di tutta la vicenda e del contesto in cui è avvenuta: la “cosificazione” che porta a trattare le donne come oggetto da comprare e “consumare” e che finalizza a sua volta la rinuncia delle donne alla propria dignità all’obiettivo di potere comprare, status-symbol della condizione umana in questa nostra contemporaneità.
Sulla scena la ricostruzione giuridica e psicologica della vicenda e del processo che ne è seguito, si intreccia con la rievocazione di un altro processo famoso, “Processo per stupro”, mandato in onda dalla RAI nel 1979, la cui registrazione video è oggi custodita al MOMA di New York. Un processo-archetipo di come il sistema giudiziario fosse ancora abbarbicato agli stereotipi patriarcali.
Il filo rosso della piece sono le riflessioni della giudice chiamata a presiedere il processo, che attraversa la memoria del proprio passato, della propria formazione e delle ferite che l’hanno segnata, per decidere quale risarcimento imporre con la sua sentenza di condanna dei “clienti”: “Se io adesso disponessi di risarcirla in denaro, non farei che ripetere la modalità di relazione stabilita dall’imputato, rafforzando in lei l’idea che tutto sia monetizzabile, anche la dignità”, e allora decide di compiere un atto trasformativo e simbolico, stabilendo a titolo di risarcimento l’acquisto di libri delle donne e sulle donne da consegnare alle vittime, perché possano, se lo vorranno, riscattare con la conoscenza la degradazione che hanno subito.
Quella sentenza storica è reale e quella giudice esiste, Paola Di Nicola Travaglini, ed era presente in teatro, dove ha tenuto, dopo la rappresentazione teatrale, una lectio magistralis assolutamente originale e alternativa, anche nello stile comunicativo: sugli stereotipi millenari che hanno segnato la nostra società e le nostre relazioni, sul potere di “nominazione” che alle donne da sempre è stato negato, sul linguaggio che è indispensabile riscrivere, per dare parole adeguate ad esprimere l’esistenza e l’esperienza delle donne senza costringerle ad annullarsi in un maschile falsamente neutrale che ne cancella la differenza.
Ragionamento estremamente impegnativo e senza sconti, quello della giudice, che ha prodotto nel pubblico un effetto-verità assolutamente preoccupante: distratti e sprezzanti molti ragazzi, per lo più chiusi in un silenzio assente e ottuso, icone del patriarcato che si riproduce quasi automaticamente, più volte ripresi dalla relatrice così come dall’attrice durante lo spettacolo, attente e coinvolte quasi tutte le ragazze, che hanno posto domande pertinenti alla giudice, continuando a ragionare anche con le docenti, fino all’uscita dopo la fine della manifestazione.
Questo dimostra quanto siano indispensabili occasioni come questa, perché gli stereotipi di genere sono ancora dominanti nell’immaginario maschile delle giovani generazioni. C’è ancora tanto lavoro di formazione da fare nel campo dell’eduzione affettiva e relazionale, prima ancora che sessuale, ma il Governo vuole andare nella direzione opposta, negandola nella scuola dell’obbligo e sottoponendola al placet delle famiglie alle superiori. La Repubblica costituzionale rinuncerebbe così al suo ruolo di formazione ad una cittadinanza fondata su una uguaglianza sostanziale, sulla pari dignità di tutte e di tutti, alla costruzione di una società senza gerarchie di dominio e sottomissione, in cui sia la violenza, e non le parole che identificano l’umanità, a far valer la sua legge.




