Se qualcuno – dagli anni del dopoguerra ai primi anni Settanta del Novecento – si fosse trovato, intorno alle 4.30 del mattino, sulla piazza Garibaldi di Caltanissetta, avrebbe incontrato una moltitudine di “iurnatara” (lavoratori giornalieri) in attesa di essere reclutati come braccianti, muratori, scaricatori “a giornata”.
Più in là, davanti l’ingresso della locale Camera di Commercio, avrebbe notato plotoncini più ordinati di lavoratori, in attesa del bus che li avrebbero portati sul luogo di lavoro, nei pressi delle colline che allacciano il fiume Salso o Imera meridionale, dove le torri-ascensore delle miniere di Giumentaro e di Trabonella (“Trabuneddra” in idioma nisseno) li avrebbero introdotti nelle viscere della terra.
Quest’ultima è stata una delle miniere più ricche del bacino solfifero di Caltanissetta. La solfara era parte del feudo Trabonella, sin dai primi anni del ‘700 di dominio dell’arciprete Agostino Riva, preposto alla chiesa madre di Santa Maria la Nova, futura cattedrale di quella che sarà nel 1844 la diocesi di Caltanissetta.
L’autorevole canonico risulterà tutore di Ferdinando Morillo, un giovane i cui natali si danno in quel di Naro nel 1711. Il giovane – capostipite di una delle più importanti famiglie nissene – si vedrà donare nel 1747 dall’arciprete nisseno il possedimento di Trabonella, che gli permetterà di fregiarsi del titolo di “barone”.
Dal 1825 il feudo sarà strutturato a giacimento minerario. L’iniziale ricchezza cerealicola del latifondo consentirà a Ferdinando Morillo, che conduceva già l’attività di gabelloto, di diventare in breve tempo una delle personalità più ricche e più in vista della città e dei suoi dintorni, tanto da diventare nel 1754 Soprintendente al Pubblico Peculio, una sorta di assessore delle finanze locale.
Ferdinando è giovane, pronto, intelligente, svelto. Riesce in breve tempo a rivestire prestigiosi incarichi pubblici che gli assicurano potere e protezione ma soprattutto la possibilità di dare protezione. Non ha timore quindi di sottoscrivere, con altri esponenti della élite nissena, l’istanza diretta a re Carlo III di reintegrazione di Caltanissetta al demanio regio, sottraendola al dominio feudale dei Moncada.
Tale richiesta non è per Ferdinando Morillo disinteressata poiché è di aiuto alla vertenza giudiziaria che lo vede protagonista per conseguire il possesso esclusivo del ricco feudo di Trabonella reclamato dai Moncada. Nel 1734 sposa Antonia Guccione, dalla quale avrà quattro figli, Giacomo, Benedetto, Giovanni e Mario e due figlie Rosalia e Calogera.
La genìa si mostra all’altezza del capostipite. Il primogenito, Giacomo, nel 1771 assume la carica di giurato di Caltanissetta, incarico che gli sarà riconfermato nel 1778. Dal 1773 Giovanni, che aveva studiato avvocatura, viene nominato giudice civile mentre nel 1778 è investito della Giudicatura Criminale. Due anni dopo è giudice di appellazione.
La famiglia di Ferdinando Morillo gode di ampia fama, prestigio e soprattutto potere. Doti che naturalmente non sono da tutti gradite. Grazie alla difesa del principe Moncada di Paternò, stilata dall’avvocato D’Urso, è possibile ricavare una immagine meno stimabile della famiglia Morillo.
Il terzo figlio, Benedetto, conduce un controverso affitto del feudo di Garistoppa, anch’esso appartenente al Moncada, dove – si dice – trovino rifugio alcuni malviventi autori di svariati delitti nel feudo di Santa Caterina. Lo stesso don Ferdinando ha inconfessata nomea di manutengolo della famosa banda del Testalonga. Due di questi associati – scriverà D’Urso – sarebbero di casa nel feudo di Trabunella, dove accumulerebbero i proventi dei furti e rapine commessi nelle campagne.
«Una famiglia di facinorosi», la definisce l’avvocato dei Moncada. Affermazione sicuramente di parte che, tuttavia, rivela i contorni di una «una società violenta, dove primitive e violente sono le forme della lotta di classe e di fazione, ancor più primitivo e violento l’esercizio del potere» (Mulé Bertolo, Caltanissetta).
Altro alto esponente della famiglia dei Morillo (ora) di Trabonella, sarà Francesco. Anch’egli nasce a Naro il 13 giugno del 1816. A dispetto dei suoi predecessori sembra immune dalla controversa nomea. Appare dedito agli studi, alle letture, alle nuove idee. Apprende il francese, il tedesco, lo spagnolo, oltre a conoscere il latino e il greco. Si dedica allo studio delle scienze politiche e diplomatiche. Si mostra come l’uomo nuovo di cui Caltanissetta sembra avere bisogno.
Fiuta il cambiamento cui è destinata la Sicilia e l’Italia e che in quel momento si mostra alimentato dal nuovo pontificato di Pio IX. A tutti sembra alimentare le istanze di libertà e indipendenza dai “regnanti stranieri”.
Nel 1848, il 28 gennaio, Francesco Morillo di Trabonella raccoglie l’invito di Ruggiero Settimo di insurrezione contro i Borboni. A Caltanissetta viene costituito il Comitato Centrale della Valle. Ne viene eletto presidente. Gli viene conferito anche l’incarico di Capitano della 1° Battaglione della Guardia Nazionale e Vice Presidente del Comitato della Guerra e della Marina. In tale veste appronta una compagnia di soldati pronta per cimentarsi sul campo di battaglia di Adernò.
La rivoluzione a fine 1848 viene soffocata e Francesco deve rifugiarsi nei propri possedimenti in attesa di nuovi eventi. La sua fratellanza massonica gli permette di tessere rapporti con Cavour, La Farina, Cordova. Grazie alle sue finanze raccoglie, sotto forma di lavoratori delle sue aziende, adepti e clientes di ogni sorta. Sa che gli saranno utili nel nuovo mondo che – da uomo nuovo e intelligente – sente ineludibile.
Il 4 aprile del 1860 la campana della Gancia dà il segnale della nuova (risolutiva) insurrezione. L’11 maggio dello stesso anno Garibaldi sbarca a Marsala. Francesco Morillo di Trabonella non si fa trovare impreparato. Ha ricevuto notizie della marcia che le truppe borboniche, al comando del generale Afan de Rivera, dovranno muovere verso Pietraperzia per sbarrare il passo alle milizie garibaldine.
Approfitta quindi della momentanea assenza di presidio militare in città per farsi proclamare Presidente del Comitato Provinciale, affermando di volere assicurare “il mantenimento dell’ordine, l’equità, la prudenza e la giustizia”. Abilmente non dichiara subito in nome di quale partito (regio o rivoluzionario) eserciti tali poteri. Constatati gli eventi, il 26 maggio, emana il proclama con cui disvela di reggere l’Ufficio affidatogli “in nome di Vittorio Emanuele”.
Da avveduto politico non dimentica che il nuovo ordine non può fare a meno del potere moderatore della Chiesa e, in nome della “conservazione della quiete pubblica”, ricorre al Vescovo, Monsignor Giovanni Guttadauro Reggio, Principe di Reburdone, assicurandone sicurezza e soprattutto approntando le “necessarie” risorse in favore “dei miseri”, in maniera che “acciò si fosse cooperato ad assicurare sempre più il mantenimento dell’ordine e della conservazione del rispetto dovuto alla legge a alla religione”.
Queste “accortezze” gli varranno l’approvazione e la lode del Dittatore Giuseppe Garibaldi che lo nomina Governatore provvisorio e primo Prefetto della Provincia in procinto di passare sotto il governo dei Savoia. Lo storico del tempo Mulè Bertolo ne tesse elogio descrivendone la capacità di mettere a tacere “lotte arroganti, quando pettegole, che gli venivano da coloro i quali, sotto il titolo di liberali, si arrabattavano per insignorirsi delle cariche, degli impieghi e principalmente del denaro pubblico e privato”
Il 28 giugno dello stesso anno (1860) fa esprimere al popolo nisseno “il pensiero unanime di volere l’Unità Italiana, Italia a Vittorio Emanuele”, precorrendo – da grande anticipatore – la stagione dei plebisciti che si terranno nell’ottobre successivo.
E’ tuttavia prudente e acuto. A differenza di altri suoi contemporanei nisseni rifiuta cariche del nuovo regno, preferendo agire sottotraccia, finanziando questo o quel partito nell’ancora acerbo gioco parlamentare della nuova Italia. Evita gli infortuni, sempre possibili in questa età di trapasso tra il vecchio e il nuovo. E’ pur sempre un uomo di affari. Le sue sostanze sono comunque sempre utili alla nuova dinastia al potere.
E’ così che Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, il 10 luglio del 1861 lo decora della “Croce di Uffiziale dell’Ordine dei SS.Maurizio e Lazzaro,” entrando come “Cavaliere di Grazia”. Rimane al vertice della nuova Provincia, anche se alla fine del 1861 si ventila un suo trasferimento, impiegando la ragione di evitare che i presidenti delle provincie “appartenessero alla stesse”.
A tale annuncio il Clero e il Capitolo della Cattedrale con indirizzo del 7 settembre 1861, “facendosi interprete dei sentimenti della popolazione e presentando non un plebiscito ma l’unanime espressione di un desiderio onesto”, ricorrevano al Prodittatore per “conservare il Barone Morillo nella carica di Governatore di questa Provincia”.
Il tentativo è per lui bastevole. Oramai conosce i nuovi meccanismi del potere nel nuovo regno. E’ consapevole che dovrà lasciare l’incarico ma da abile tessitore fa conoscere che è necessaria una contropartita. E’ così che con la lettera del 17 novembre del 1861 con cui il Ministro dell’Interno, esprimendogli gli elogi per avere servito la causa italiana, accetta le (suggerite) dimissioni, nel contempo comunica che “Sua Maestà, a fine di dare a Lei una prova non dubbia della sua gratitudine e, al fine di metterla in grado di continuare i servizi alla Patria, ha elevata la S.S. all’alta dignità di Senatore del Regno.”
Inaugurando una tradizione che negli anni non verrà a mancare in città, il nuovo Senatore “non lasciava di adoperare la sua influenza e popolarità per appoggiare il cav. Domenico Marco, nuovo venuto a reggere i destini della Provincia di Caltanissetta, nella qualità di Prefetto.”
Rientrato a vita privata, non gli mancano incarichi e onorificenze. E’ chiamato a membro della Società di Acclimatazione e di Agricoltura in Sicilia. Nel marzo del 1862 è Presidente Onorario dell’Istituto fondato a Parigi per l’abolizione della tratta e della schiavitù in Africa. Non è naturalmente esente da maldicenze e pettegolezzi, tipiche di chi è stato uomo di potere e destinato al momento calante del prestigio e del credito. Cosa che sembra avvenire a inizio del 1876.
“Vittima del suo gran cuore o della massima buona fede, i gravi dispiaceri lo traevano al sepolcro” all’età di 61 anni, addì 30 giugno 1877. I suoi funerali saranno “quelli di un Re. Il corteo imponente e commovente. Tutti, senza eccezione, piangevano la fine di quell’uomo venerando, vittima del suo grande galantomismo, del suo grande cuore, della sua immensa bontà”.
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(Bibliografia: “Personaggi illustri di Caltanissetta”, Giovanni Mulè Bertolo)




