Arcangelo Mandarino, nisseno, Procuratore della repubblica a Belluno. Individuò i responsabili della strage del Vajont

Lillo Ariosto
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La sera del 9 ottobre del 1963 una gigantesca frana si stacca dal monte Toc, nelle Prealpi Carniche al confine tra il Friuli Venezia Giulia ed il Veneto, precipitando nel bacino idroelettrico che accoglie le acque del fiume Piave e dei torrenti Maè e Boite. L’enorme invaso artificiale è delimitato dalla diga del Vajont, all’epoca con i suoi duecentosessantadue metri la più alta del mondo.

L’improvviso movimento franoso provoca uno tsunami di oltre duecentocinquanta metri, che supera il bordo della diga riversando sul piccolo paese di Longarone oltre cinquanta milioni di metri cubi di acqua. A causa del catastrofico evento, che sprigiona un’energia doppia rispetto alla bomba atomica di Hiroshima, muoiono circa duemila persone.

A governare le sorti giudiziarie di quel disastro immane sarà un caltanissettese, Arcangelo Mandarino, che svolge le funzioni di Procuratore della Repubblica dirigendo le prime indagini poi confluite nella lunga sequela di processi a carico dei responsabili.

Nato a Caltanissetta il 20 agosto del 1920 cura la sua passione per gli studi giuridici ma c’è la guerra e tutto scorre su binari atipici rispetto agli usuali. Sono necessari strumenti diversi per reclutare il personale necessario al funzionamento degli uffici. Non c’è modo e tempo per l’espletamento di concorsi. Si adottano strumenti eccezionali. Così con decreto ministeriale del 24 giugno 1941 Arcangelo Mandarino, a ventuno anni, viene nominato volontario di segreteria presso la Procura Generale della Corte di Appello di Caltanissetta, all’epoca sezione stacca di quella di Palermo. L’incarico dura due anni, fino al 27 dicembre del 1943, quando viene assegnato alla Cancelleria della Pretura di Belluno, territorio ancora in pieno conflitto mondiale.

Le emergenze sono tante. Le sorti della guerra sembrano destinate al peggio. Gli incarichi nell’amministrazione sono al momento dati con la formula “in prova”. Cessate le ostilità bisogna ricostruire l’amministrazione statale. Mandarino, superato il periodo interinale, viene assunto nell’amministrazione giudiziaria il 1° ottobre 1947. Grazie alla legislazione messa in piedi dal già Ministro della Giustizia Togliatti viene incorporato, il 1° ottobre del 1952, nell’ordinamento giudiziario come Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Belluno.

E’ un Ufficio Giudiziario di frontiera, non solo geografica, oggi rientrerebbe fra quelle definite in gergo amministrativo “sedi disagiate”. Mandarino però vi si trova bene. E’ un lavoratore serio, scrupoloso, conserva il retaggio della fedeltà allo Stato professato, sotto paradigma diverso, nel precedente ordinamento statuale. Sono qualità che gli aprono la strada al prestigioso incarico di Procuratore Capo della Repubblica di Belluno, nomina che riceve il 28 giugno del 1953.

Alla fine degli anni Cinquanta conduce le indagini sul caso di omicidio della contessa Martha Kusch, celebrata nel libro di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti”. Luisa Florentine Martha Kusch (in Rower) è una cittadina americana di origini tedesche, conosciuta come “la contessa” per la sua relazione sentimentale con il conte Marco Borgogelli. Questi durante la seconda guerra mondiale svolge l’incarico di Ufficiale delle SS italiane. Verrà ucciso dai partigiani nell’autunno del 1944. Il corpo della contessa privo di vita viene invece rinvenuto il 6 maggio 1945 nei pressi del cimitero di S. Osvaldo, a Pedavena. Su un dito della mano sono ancora visibili delle escoriazioni provocate da chi le aveva strappato l’anello. Le indagini di carabinieri e polizia, sotto la direzione di Mandarino, portano a cinque partigiani. Vanno a processo nell’aula della Corte d’Assise di Belluno. Nel corso del dibattimento spunta una valigia rinvenuta al momento dell’arresto della Kusch, contenente quattro milioni in banconote. La valigia viene portata al Comando del Battaglione partigiano. Le testimonianze assunte confermano la sparizione dell’anello, oltre alla pelliccia di visone ed altri oggetti pregiati. Nel corso del processo, viene accertato che solo un milione e seicentomila lire arriva al Comando del Battaglione Garibaldi. Somma divisa fra i garibaldini, il Comune e i cittadini bisognosi. Martedì 21 novembre 1950 si conclude in Corte d’Assise a Belluno il processo a carico di quattro ex partigiani, imputati di omicidio aggravato e rapina. La sentenza applica nei loro confronti l’amnistia e derubrica il reato di rapina in peculato, assolvendoli per insufficienza di prove. Il 22 novembre 1950 tutti gli imputati sono rimessi in libertà.

Ma è un altro il processo per cui il caltanissettese Procuratore a Belluno rimarrà celebre. I fatti del Vajont. Mandarino conduce le indagini in istruttoria sommaria per l’accertamento delle responsabilità penali. Poco prima di mezzanotte del 9 ottobre del ‘63, avvertito telefonicamente dell’avvenuto disastro, si reca immediatamente alla volta di Longarone. Qui intraprende i primi atti formali.

Già dal mattino del 10 ottobre dispone l’istituzione di centri di raccolta dei resti delle vittime lungo il corso del fiume Piave e la costruzione di un ufficio riconoscimento salme nella sede della Provincia. A partire dal 12 ottobre 1963, raccoglie una cospicua documentazione con sequestro giudiziario del sito, oggi conservata nell’Archivio di Stato di Belluno.

Nel disastro sono coinvolti i massimi vertici di enti di Stato da poco costituiti come l’Enel. I tentativi di influenzare le indagini non tardano ad arrivare. Ciò nonostante Mandarino il 3 dicembre 1963, incarica il geologo Michele Gortani, a cui viene affiancato un collegio di esperti, di eseguire i primi accertamenti sulla frana e sulle capacità del bacino artificiale.

In poco più di due mesi, il 14 febbraio 1964, Mandarino formula le accuse e trasmette, secondo il rito processuale allora vigente, gli atti dell’indagine al giudice istruttore Mario Fabbri. Questi procederà alla istruttoria formale contro gli imputati, accusati di cooperazione in disastro colposo di frana, aggravata dalla previsione dell’evento, cooperazione in disastro colposo di inondazione, cooperazione in omicidio e lesioni colpose plurime.

Le indagini e le pressioni attorno ad esse sono imponenti. Mandarino, animato dallo spirito di fedeltà alle istituzioni con cui si è forgiato, mostra forza e caparbietà. Il 21 maggio 1967, con il giudice istruttore Fabbri e alcuni avvocati della difesa e della parte civile, raggiunge la scuola nazionale di geologia applicata della Università di Nancy, dove il direttore Marcel Roubault, a capo della commissione di periti, conduce le simulazioni su modellino della frana. Il 23 novembre 1967, Mandarino deposita la sua requisitoria, dove individua le gravi responsabilità dei tecnici della Sade-Enel e dei funzionari ministeriali.

Maurizio Reberschak professore di Storia contemporanea nelle Università di Padova e di Venezia e che si occupa di storia politica e sociale con riferimento ai gruppi di potere nell’Italia contemporanea, considererà la requisitoria del pubblico ministero di Belluno, forse il più appassionato resoconto dell’evento e dell’opera dei primi soccorsi. Tra le circa cinquecento pagine dattiloscritte si scorge un difficile rapporto tra potere centrale, regionale e amministrazione periferica e locale, da cui rischierà di non esserne immune il potere della giustizia.

Con la legge 1643 del 6 dicembre 1962 era stato istituito L’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (ENEL). Succedeva alla SADE gestore dell’impianto del Vajont. Il disastro si trasforma presto in un caso politico, con schieramenti allineati sulla tesi dell’imprevedibilità e altri sul fronte opposto. Questo enfatizzato dal fatto che i tecnici della SADE e del Ministero avevano avuto un comportamento sostanzialmente omertoso rispetto alla grande frana del Toc, la cui gravità era stata di fatto tenuta nascosta a popolazione e politici locali.

Mandarino si rivelerà immune da influenze e per quanto di competenza del suo Ufficio porterà sul banco degli imputati i vertici degli enti responsabili del disastro. Non mancano i tentativi di insabbiamento, tra cui la omessa divulgazione della relazione delle prove eseguite a Nove, scoperta fortuitamente da un dipendente dell’Università di Padova, atto per cui viene anche denunciato e poi assolto.

Uno dei pochi giornali che si occupa dettagliatamente della vicenda prima della tragedia è L’Unità, con gli articoli della giornalista Tina Merlin, denunciata dalla SADE per procurato allarme. Il 21 febbraio 1968, tre mesi dopo la requisitoria di Arcangelo Mandarino, il Giudice Istruttore di Belluno, Mario Fabbri, deposita la sentenza di rinvio a dibattimento degli imputati.

Nel frattempo, due di questi sono deceduti mentre uno si toglie la vita il 24 novembre dello stesso anno. Il giorno dopo inizia il processo di primo grado, che si tiene all’Aquila lontano dal luogo del disastro, per assunti motivi di ordine pubblico. Sarà il primo di una lunga serie di processi in primo grado, in appello, in Cassazione e in sede civile.

A conferma dell’impegno, della correttezza e imparzialità di Arcangelo Mandarino rimangono le venticinquemila pagine che costituiscono l’archivio degli atti del processo sul disastro del Vajont.

A Mandarino il 14 marzo 1966, con decreto del Presidente della Repubblica, viene conferita la medaglia di bronzo della pubblica finanza in qualità di presidente della Commissione Provinciale per le imposte dirette e per le imposte indirette sugli affari di Belluno.

Nell’ottobre 1967 viene nominato consigliere di Corte d’Appello. Dal marzo 1972 ricoprirà l’ufficio di Presidente del Tribunale di Belluno sino al suo collocamento a riposo.

Il 27 dicembre 1990, su proposta della presidenza del Consiglio dei Ministri, viene nominato Grande Ufficiale all’Ordine al merito della Repubblica italiana.

Muore di malattia a Belluno il 24 settembre 1991. E’ sepolto, accanto alla moglie, nel cimitero di Cusighe.
 

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