Il ciabattino filosofo e l’antenna RAI

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di Anna Mosca Pilato

Michele Margiotta, che di mestiere faceva il ciabattino, era un uomo tranquillo, nel senso che conduceva serenamente la sua esistenza senza troppo lamentarsi né troppo pretendere, accontentandosi di ciò che aveva che in verità, se parliamo dell’aspetto economico, non era molto.  

Verso la fine del 1950 infatti egli, con i suoi modesti guadagni di artigiano, riusciva a portare avanti la sua famiglia composta dalla moglie Sarina, dalla figlia Ginetta, la maggiore, e da due maschietti gemelli più piccoli, due discolacci. E in casa c’era pure un fratello della moglie, nullafacente

Michele, anzi ‘u zì Micheli, come lo chiamavano tutti, lavorava nell’androne di un vecchio palazzo, un tempo nobiliare ma allora alquanto mal ridotto e abitato da gente del ceto medio piccolo. I condomini gli avevano consentito di usufruire gratuitamente di una specie di gabbiotto dove forse una volta c’era un portiere, prima che il palazzo ulteriormente fosse degradato. Egli si sdebitava eseguendo in cambio piccoli lavoretti, come mettere qualche taccitedda o siminzina nelle scarpe che gli portavano. Cose di poco conto che, per i lavori più lunghi, giustamente si faceva pagare. Doveva pur vivere poveretto!

 In quell’epoca di ciabattini in città ce n’erano tanti, per cui i guadagni erano piuttosto scarsi. Sarina, quando poteva, contribuiva al bilancio familiare lavando i panni di alcune famiglie e rammendandone la biancheria all’occorrenza. Ginetta, di 13 anni, che era molto assennata, oltre a studiare aiutava nei lavori domestici.

Michele era molto orgoglioso della sua famiglia per la quale era pronto ad ogni sacrificio. Particolarmente fiero era della sua primogenita Ginetta e la sera, quando a casa si rilassava un po’ dopo cena, amava parlare con lei, raccontarle le cose della vita e darle qualche utile insegnamento.

-Studia e impara bene figliuzza mia- le diceva spesso-così un giorno non dovrai dipendere da nessuno e nessuno mai ti potrà imbrogliare perché saprai leggere, scrivere e fare di conto. Tu che sei così studiosa te la saprai sempre cavare. Soprattutto non farai la vita di sacrifici dei tuoi genitori e dei tuoi nonni. Poi, se vorrai continuare a studiare, io sono pronto a tutto, pure a lavorare di notte per consentire questo a te e ai tuoi fratelli.

Io sono stato un autodidatta, così si dice, cioè ho imparato a leggere e a scrivere da solo e da grande, nessuno mi ci ha mandato a scuola a mia. Però poi ho sempre letto tantissimo. Il cavaliere Indorato, un animo nobile, una persona di quelle che non ne fanno più, lo stampo si perse, mi ha sempre prestato volentieri i suoi libri di filosofia e di storia, i miei preferiti, ed io glieli ho restituiti sempre intatti, dopo logicamente che li avevo letti e avevo preso appunti.

La sera Michele prima di andare a letto, soprattutto nelle calde notti d’estate, amava affacciarsi dal balconcino della sua casupola in periferia e stava a contemplare le stelle sospirando di piacere.

Sarina diceva rivolgendosi alla figlia: -Tuo patre sempre con la testa nelle nuvole sta!

Spesso Ginetta lo sentiva anche esclamare:

-Quanto è bella, ma quanto è bella!                                               

-Di quale stella parli, papuzzu?- gli chiese una sera la ragazza.

– Non stavo parlando di una stella, figlia mia, ma della nostra antenna RAI.

-Che cosa?- disse Ginetta che non sapeva neanche cosa fosse e non ci aveva mai fatto caso.

– L’antenna, figlia benedetta, la nostra antenna, non l’hai mai taliata, non la vedi laggiù- fece Michele quasi dolorosamente stupito.

Ginetta allungò il collo per vedere ciò che indicava il padre, capì che si riferiva a quella strana cosa, stretta stretta e lunga lunga, illuminata, che si scorgeva in lontananza.

-Ma cchi è ‘sta cosa, papà? A che serve, perché ti piace tanto? Non sono più belle le stelle?

-Figlia mia, le stelle sono meravigliose e irraggiungibili, fredde e indifferenti ai destini degli uomini…

-To patri cominciò a filosofari! Stiamo freschi! -commentò la moglie scuotendo la testa.

Ma lui continuò imperterrito: -La nostra   antenna invece non è lontana da qui ed è molto importante, serve a diffondere le onde radio in tutti i paesi del Mediterraneo, pure in Africa arriva, è una stazione radiofonica, capisci?

La ragazza in verità era perplessa: -Stazione è?

Ma no, non quella dei treni, significa che trasmette i programmi radiofonici, in onde medie e onde lunghe. Vedi, Ginetta mia, io tutto sommato sono solo un poveraccio, lo so che molti per sfottermi mi chiamano alle spalle “Mastru Scarpariddu”, sai quello del cuntu antico, ricordi? Quello che era tanto orgoglioso da non voler fare capire ai vicini che era un morto di fame, e perciò ordinava alla moglie di friggere una mezza cipolla in modo che tutti potessero percepirne l’odore e credere che stessero preparando un buon pranzetto, quello che poi si metteva davanti alla finestra a grattugiare un issuttu, un pezzo di gesso, per far credere che avesse in casa anche del buon formaggio.

Ecco anch’io sono orgoglioso, in questo momento ad esempio il mio grande orgoglio è questa antenna. Ma lo sai che è la più alta d’Italia e per giunta pure d’ Europa? E’ alta 286 metri, ti persuadi, solo una quarantina di metri più bassa della tour Eiffel, quella che sta a Parigi! E l’hanno piazzata proprio qui, nella nostra  piccola, insignificante città che in Europa e forse pure in Italia  nessuno la conosce.

-E noi che ci guadagniamo?- chiese Ginetta.

-Noi? Noi un bel niente! Sicuramente c’è chi ci guadagna tanti denari, la RAI e altri, chissà. Ma noi, che siamo gli ultimi di questa povera provincia, ci guadagniamo… la fama, sì la fama!

Ginetta lo guardava imbambolata!

-La fama? Ma che significa?

E Sarina borbottava ironica: – La fame, vuole dire, la fame!

-Va bene, Ginetta, è una storia lunga, te la racconto un’altra volta.  Ora andiamo a letto.

La sera successiva Ginetta chiese al padre:

-Dimmi papà, ma allora, quando non c’era ancora l’antenna la nostra città non contava proprio niente? Non la conosceva nessuno?

-Beh, veramente, c’è stato un tempo in cui Caltanissetta era diventata importante e stava per diventarlo ancora di più.

In un lontano passato Caltanissetta, anzi Calatanixetta, ebbe un periodo di splendore, fu quando divenne feudo di una importante famiglia nobiliare spagnola, quella dei Moncada…Ma è un discorso lungo Ginetta, poi ti annoi ad ascoltare…

-No papà, non mi annoio, continua.

– Te la racconto facile facile e pure breve, la storia.

-Nel 1400 la nostra città era diventata un feudo, una contea ed era stata data ai Moncada, una nobilissima famiglia spagnola. I conti Moncada nel tempo diventarono ricchi e potenti, nel Seicento erano dei gran signori e decisero di costruire un magnifico, enorme palazzo proprio nel cuore della città. A quel tempo Caltanissetta visse un periodo di splendore. Hai presente, gioia, quel palazzone dove ci sta il cinema Trieste? Ti ricordi che ti ci ho portato a vedere “I dieci comandamenti”?

-Sì, mi ricordo. C’era una fila lunghissima che occupava pure il corso Umberto, arrivava quasi alla statua e poi…

– Sì vabbè, ma il palazzo, il palazzo grande, te lo ricordi?

– Un pochino, non tanto. Vecchio però, ridotto male…

– E certo. Sono passati quasi quattro secoli da quando cominciarono a costruirlo. Però non l’hanno mai finito.

– No? E perché?

-Perché il conte fu richiamato in Spagna, ma questa è un’altra storia.

Comunque stavo dicendo che in quel periodo la nostra città divenne importante. I Moncada nel sedicesimo secolo erano la più importante famiglia nobile della Sicilia e avevano la Corte proprio nella nostra città e da qui controllavano un feudo che comprendeva quasi un terzo della nostra isola. Capisti? Erano addirittura la quarta famiglia nobile d’Europa per patrimonio, per ricchezza! Capisci?

-Ma cchi dici papà, stai babbiando? In giro mi prendi? Nun ci criu!

Sarina: -To patri sempre esagera.

– Ma no,  figlia mia, vero è.

– Papà, ma allora, a quel tempo anche gli abitanti della nostra città erano ricchi e contenti!

– E no, figliuzza mia, non confondiamo. I Moncada, loro erano ricchi e potenti, poi quelli della corte e anche alcuni nobili locali. I loro amministratori se la passavano bene e pure un pochino gli altri che lavoravano per loro. Il palazzo Moncada era una città dentro la città, ci vivevano consiglieri, contabili, notai, dame e cavalieri, e poi anche artisti, artigiani, musici, giardinieri. Ma tutti gli altri invece, gli abitanti della città, tranne i fornitori… poveretti erano e miserabili sono rimasti. Gli ultimi come sempre.

Se io fossi vissuto in quell’epoca, al tempo del principe Francesco II Moncada per esempio, e se avessi fatto allora il ciabattino, sarei stato un morto di fame come adesso anzi molto peggio. O forse…chissà, sarei diventato tanto bravo da essere chiamato a corte e da avere l’incarico di fabbricare delle morbide scarpine per Donna Luisa, la duchessa!

Sarina, congiungendo le mani: -Sogni, sempre sogni. Che grande sognatore!

-Ma perché, papà, lasciarono il palazzo a metà e se ne andarono via?

-Questo veramente non lo ricordo bene. Mi pare che furono accusati di cospirazione contro la Spagna e perciò il re spagnolo li obbligò a rientrare in patria. Comunque  Caltanissetta rimase contea sino al 1812, perdendo però via via importanza. Poi con la Costituzione Siciliana, che decise la fine del sistema feudale, la contea fu soppressa e la città a poco a poco ritorno nell’ombra.

-Mihhh, ma quante cose sai papà!

-Poche rispetto a tutte quelle che ci sono da sapere

– Sì, papuzzu, ho capito, ma la cosa, l’antenna, chi ci trasi?

-Ci trasi, ci trasi, continua ad ascoltae. C’è stato un altro periodo in cui il territorio di Caltanissetta diventò un luogo conosciuto dappertutto, anzi era diventato il primo in tutto il mondo, il centro della Sicilia e in particolare la zona di Caltanissetta era nientemeno considerata la capitale mondiale dello Zolfo!

-Ma che mi stai dicendo, davvero è? La capitale? Di tutto il mondo? Nun cci criu!

-Sì, giuiuzza, così è, ma solo per l’estrazione dello zolfo naturalmente, sì, la nostra provincia era la prima, nel nostro territorio c’erano molte miniere e davano lavoro a tanti minatori, i surfarari.

-Ma allora, dato che Caltanissetta era diventata importante…viene a dire che era piena di gente ricca!  

– E no, nicuzza, come al solito i ricchi   pochi erano, cioè i proprietari delle miniere e pochi altri che svolgevano compiti importanti. I surfarari erano poveri ma almeno riuscivano a sfamare le loro famiglie. Avevano, e hanno ancora oggi nelle miniere che sono rimaste, una paga molto modesta rispetto ai grandi sacrifici e ai grossi rischi che correvano. Molti nelle pirrere ci hanno lasciato la pelle, sono successe tante terribili disgrazie!

-Ma allora perché ci andavano?

-Ma perchè erano gli ultimi degli ultimi, gioia mia, quelli che non potevano tirare a campare, che ci mancava “di jornu u pani e di notte ‘a roba”, come si dice dalle nostre parti. Forse che avevano scelta? No, non ne avevano scelta. Pensa che spesso vendevano pure i loro figli, dei ragazzetti ancora piccoli che, anziché andare a giocare, erano obbligati a lavorare in miniera. Scendevano sottoterra in cambio di una certa somma data alla famiglia che così poteva tirare avanti e magari anche fare la dote alle figlie femmine.

–Papà, ma è una cosa orribile, brutta assai, non si possono vendere i figli, tu e la mamma non ci vendereste mai!

-Beh per la verità, non era una vendita vera e propria, era una specie di patto, si chiamava “soccorso morto”, cioè veniva anticipata alla famiglia una somma di denaro che il  ragazzino negli anni doveva riscattare col suo duro lavoro alle dipendenze di un picconiere. Ma di fatto i genitori spesso non li rivedevano più i figli, i ragazzini passavano da una pirrera all’altra e talvolta se ne perdevano le tracce. Inoltre c’è da dire che spesso la famiglia veniva ricattata, gli incaricati dicevano che non avrebbero assunto il padre alla miniera se la famiglia non cedeva anche il ragazzino.

-Madonna Santa, mischini! Ma è proprio vero?-

-Purtroppo sì. Li chiamavano “carusi”, molti di loro, dato che erano ancora nell’età dello sviluppo, infatti avevano dai 7 ai 13 anni e talvolta un po’ di più, crescevano storpi e con la gobba, certe volte con due, una davanti e una d’arreri, per i pesanti carichi di pietre e di zolfo che dovevano portare sulle spalle dentro le ceste, li stirratura.

Erano costretti a lavorare sino a 16 ore al giorno, al buio, nudi per il troppo calore e tra esalazioni pericolose, a rischio di brutte malattie, traportando pesi dai 25 agli 80 chilogrammi, segnati per tutta la vita fisicamente e moralmente.  Assai ce ne morivano dentro le profonde gallerie.

Alla  miniera di Gessolungo, nel 1881, il 12 di novembre, ci fu un gravissimo incidente, una grande disgrazia, vi morirono 65 operai, 19 erano carusi di età compresa tra gli otto e i sedici anni. Molti di questi, credo nove, rimasero senza nome, nessun parente chiese mai notizie né volle il corpo per poterlo seppellire degnamente.

Pure il fratello di tuo nonno, un ragazzino che era le sette bellezze, si chiamava Totuccio, lo mandarono a fare il caruso di miniera. Un giorno non risalì, ci fu ancora una volta una esplosione di grisou…non si è trovato più nemmeno il corpo.

-Matri mia, che storie terribili, papuzzu. Di piangere mi viene, non si può sentire. Che tempi brutti!

-Brutti davvero figlia mia.

E Sarina: -Michè finiscila di cuntari ‘sti cosi tinti ca i picciliddi si scantano.

-I picciliddi, invece di fare continue sciarre, farebbero bene a sentire queste cose, che c’è tanto da imparare, a loro vorrei raccontare pure di quei bambini che, appena poco tempo fa, anche a cinque anni andavano a pascere le vacche e le pecore.

-Io comunque- insistette Sarina- non ho capito ancora che c’entrano questi discorsi e pure le vacche con l’antenna! Chi ci trasi. Chi nicchi e nacchi!

-Già papà, che c’entrano?

-Se avete la pazienza di ascoltare vedrete che c’entrano. Ora però vado a letto. Sonno ho, e domai ci ho tanto lavoro , ve lo spiego domani sera.

Sarina:-Ma, se hai tanto lavoro perchè non ti porti a me frati Peppino.

Michele: -No grazie, mi dà più sdirrupo che aiuto, non sa dove mettere le mani, non capisce niente, fa disordine e mi fa perdere solo tempo.

-A mia non mi vuole mai! Io ci voglio andare ma non mi vuole- disse Peppino.

Michele: -Ah, io non ti voglio, colpa mia è? Vabbè lasciamo perdere…

Ciò detto Michele si affacciò a salutare come al solito il traliccio illuminato che svettava nel cielo sereno d’agosto e se ne andò a letto.

L’indomani sera dopo cena, mentre sul balconcino Michele si godeva il fresco, Ginetta gli chiese a bruciapelo:

-Ma poi cosa successe, papà, non siamo stai più i primi al mondo?

 -No, Ginetta, non più, abbiamo perso il primato. Altri in altri paesi, come l’America, hanno imparato a estrarre lo zolfo più velocemente e con costi minori, col metodo Frasch, mi pare che si chiama così, e allora… addio patria! Le nostre miniere hanno cominciato a perdere terreno. Molte però hanno chiuso perché si erano esaurite, zolfo non ce n’era più, la miniera Trabonella per esempio, che prima era una delle più importanti del nostro territorio, nel 1950 ha chiuso per questo motivo, non c’era più il minerale .

-E le altre miniere?

-Alcune oggi sono abbandonate, le altre a picca a picca le chiuderanno tutte.

-E i carusi…ci lavorano ancora?

-Mah! I picciliddi nelle pirrere non dovrebbero starci più, però io ho sentito dire che di scanticchio ce ne sono ancora. Speriamo che un giorno se ne parli di questi poveri minatori che hanno fatto un lavoro infame, quasi da schiavi. Soprattutto speriamo che qualcuno si ricordi dei poveri carusi!

E Sarina: -Sììì, come no! Me lo figuro, me lo figuro proprio! Della povera gente mai nessuno si ricorda, non si preoccupano dei vivi figurammuni dei morti.  

-La mamma sempre pessimista è.- fece Ginetta.

Michele, un po’ piccato: -Già, la sua natura è. Pure quella di contraddirmi è la sua natura, non ci può fare niente.

Sarina: – Pensa male che bene te ne viene.

Zio Peppino: Ragione c’ha me soru, dei mischinazzi non si preoccupa mai nessuno.

Michele: Guarda che stiamo parlando di mischinazzi, non di lagnusazzi..

Sarina- Che colpa c’ha me frati se soffre di nervi? Ha avuto una mala sorti!

Zio Peppino: -Proprio, ‘na mala sorti!

Michele: -Hai ragione Peppino, scusami davvero, sei stato proprio sfortunato e c’é poco da scherzare, perdonami, la tua è una malattia terribile e inguaribile.

Zio Peppino : -Infatti.

Michele: -… La lagnusia!

Zio Peppino: -Ora basta ah, mannirbuliavu…mansinnò, ‘nsinnò…fazzu…fazzu…vah, migliu…ca mi  vaiu a curcu!

Michele:- Appunto!

Ginetta:- Ma allora, papà, la città dopo che ha perso il primato è ripiombata nel silenzio, è stata dimenticata?

-Sì, Ginetta, purtroppo.

-E l’antenna?

-Ecco, brava, ed io lì voglio arrivare.

Seguimi bene Ginetta,- continuò Michele- tu capisci che noi, come ho detto, siamo in una città che nessuno la conosce, molti storpiano pure il nome, la pronunciano e la scrivono con una sola “s”, pure i cartelli stradali sono spesso sbagliati! Ma ora, grazie a questa antenna, il nome della nostra città è scritto su migliaia di apparecchi radio, forse milioni, ed entra quindi in moltissime case dove ci vivono più persone, perché essa è una stazione radio e tutti ne leggono il nome, scritto come si deve, in Italia e all’estero, in nord Africa! Capisci ora, figliuzza mia, quello che ti voglio significare?

Ginetta cominciava a capire.

-Tutti noi nisseni- continuò Michele- siamo molto orgogliosi di questa cosa. Immagina ora quanto ne possono essere orgogliosi quelli che vivono e lavorano lontano, spesso per fare lavori umili e pesanti, gli sguatteri, i minatori e altro, quando hanno la possibilità di sintonizzarsi.

Ci pensi che significa per quei poveretti lontani dalla casa, dalla famiglia, dalla loro terra, leggere tra tante stazioni radio importanti di tutto il mondo pure il nome della nostra piccola città Si commuovono, piangono proprio, ma nello stesso tempo si sentono gonfiare il petto per l’orgoglio.

-Sì papa, ora ho capito tutto.

-E poi , vuoi mettere quando le  persone che vivono fuori da qui ritornano a casa, quando da lontano cominciano a vedere  le luci dell’antenna? Si emozionano e pensano “Città mia , sto arrivando, mammuzza, figli miei, sono finalmente a casa,  a casa mia!” E sono felici!

– Infine, figlia mia, te lo voglio proprio dire, a me l’antenna piace, io la trovo bella, specialmente di sera, per me fa parte del paesaggio che io amo, non potrei farne ameno. Inoltre mi fa tanta compagnia, sì, non guardami strano, specie nelle sere d’estate, quando mi affaccio per godere un po’ di freschetto dopo una lunga giornata di calura mi pare di ritrovare un’amica che mi ha aspettato tutto il giorno, e io la saluto, e poi ci parlo a questa amica e lei mi ascolta sempre, muta, senza criticare e senza rispustiare. Non so se mi spiego.

-Non  esagerare papà. Un’amica, addirittura! Ma che, papà, arrabbiato con la mamma sei?

-No, ma quale, tutto sommato una bona cristiana è, lavoratrice, assinziata, brava mamma e poi… non è colpa sua se alcune cose non le capisce.

-Papà, ma se un giorno l’antenna non ci fosse più? Se cadesse? È così stretta e alta! E se un giorno l’abbattessero?

-Ma che dici Ginetta, strammata sei? Non potrà mai cadere perché è tenuta da robustissimi tiranti che la tengono bella ferma e non si potrà distruggere mai perché è stata fatta con acciaio riciclato da materiali bellici. E perché poi dovrebbero abbatterla? Non lo faranno mai perché è troppo importante per noi e per tutti i paesi del Mediterraneo.

– Sì papà , ho capito, mi hai convinto. Dovrebbero essere proprio dei pazzi a fare una cosa del genere.

– Sarebbe proprio assurdo, figlia mia. Perché, voglio dire, se magari un giorno l’antenna non potesse essere più in funzione, sai com’è, Il progresso che avanza, le nuove tecnologie, chi lo sa, chi lo può sapere… la struttura però sarà comunque sempre bella, un prodigio della ingegneria. Meriterebbe di essere salvata. Potrebbe forse costituire una attrazione turistica. Forse che la tour Eiffel che è molto più vecchia l’hanno tirata giù?

– Vero è papà. Ragione ti do. Ma sono sicura, anzi  sicurissima  che l’antenna non potrà mai cadere e che non la butteranno giù. Ma no, non lo faranno, non lo faranno mai!

E con questa consapevolezza Ginetta se ne andò a dormire nella cameretta che divideva con i gemelli, i quali  già ronfavano  distrutti, non senza avere prima, come il padre, mandato un saluto affettuoso alla sua amica antenna radio. Poi si addormentò serena come se quella fosse anche una sentinella pronta e attenta a vegliare sui  suoi sogni e a cacciare via  i vecchi incubi fanciulleschi.

 Eh sì, Ginetta pure, era una vera sognatrice, tale e quale al padre, spiccicata, e quella sera infine l’aveva scoperto.

Anna Mosca Pilato

foto dal sito Visit Caltanissetta

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