“Non che la verità non sia bella: ma a volte fa tanto di quel danno che il tacerla non è colpa ma merito.” (Candido: ovvero un sogno fatto in Sicilia – Leonardo Sciascia, 1977)
Esercitando da oltre quarant’anni la professione forense ci siamo quasi costantemente confrontati con questi mirabili lemmi che il nostro Autore prediletto, Leonardo Sciascia, fa dire – nel suo “Candido” – al personaggio del “dotto teologo” nel contesto di una discussione sui segreti.
L’arte che ci hanno donato i nostri (buoni) maestri ci ha consentito, nella redazione degli atti e nelle discussioni in udienza, di riuscire ad amministrare – concedendo a chi ci stava di fronte – quel poco di verità utile a non farla diventare danno per la parte da noi patrocinata.
Con questo animo intendiamo procedere in questa nostro Reportage su alcuni caratteri di quello che vorrebbe essere l’archetipo dell’eroe “appartenente al territorio”.
Il nostro Autore più volte ha magistralmente descritto diverse figure nate – per noi – nei suoi anni vissuti nella città da dove, nel 1967, si traferì per la casa nei pressi di villa Sperlinga a Palermo.
Ci siamo chiesti in passato e ancor più nel nostro tempo attuale chi e come possa essere stato fonte di ispirazione del grande scrittore e se nei nostri giorni questo qualcuno, inteso come archetipo indigeno, lo possa incarnare.
Sciascia nel suo esemplare romanzo A ciascuno il suo, incentra la storia su un protagonista che sembra stagliarsi sullo sfondo di una società in apparenza sonnacchiosa, lenta, cotta dal sole, che si consuma in quella che vuole sembrare un insieme di individui avvolti nella routine dei riti ripetuti e ripetitivi, dei gesti replicati, degli atti ricercatamente monotoni. La partita al circolo, i sorrisi maliziosi lanciati al passaggio di una donna avvenente, anch’essa falsamente dimessa, la granita consumata sotto l’ombrellone del caffè della piazza.
Su tutta questa banalità accidiosa nascostamente domina la figura dell’eroe “locale”, velato da una fama da lui apparentemente ricusata, respinta, quasi schivata, in candido doppiopetto con fiore all’occhiello, amico di tutti, affabile, cordiale, gentile, disponibile. Suo contraltare un professore ritirato, solitario, chiuso nelle sue letture che tenta di riversare nella sua attività didattica – dai molti poco considerata – anche perché condotta nel maldestro tentativo di destare le coscienze dei suoi studenti, di contro, attratti dalle futilità che la società del (falso) benessere sembra offrire.
In filigrana due elementi (quasi) intoccabili e inviolabili. La Donna e la Chiesa.
Tutto questo era e per certi versi è ancora presente dalle nostre parti, seppure mimetizzato nelle forme attuali dove tutto – politica, affari, rapporti sociali, clero, chiesa, uomini e donne – pare abbiano assunto configurazioni distanti, remote, appartate ma (per noi) non per questo altre.
Il primo “eroe” incarna l’ipocrisia, la finzione, la doppiezza, la simulazione e la rete di potere che domina la società del luogo. Non è solo un apprezzato professionista ma un adiacente alla politica, un contiguo dai rapporti “vari” che usa per esercitare con la tradizionale palese discrezione il suo potere, al fine di manipolare gli eventi in cui tiene a sottolineare il suo apparente non appartenere.
Non è mosso da alcun senso di giustizia ma solo dal desiderio di proteggere i propri interessi. Usa la sua astuzia per sviare il raggiungimento del vero e mantenere il controllo della situazione. Incarna la alterazione che permea i livelli più alti della società. Il suo personaggio mostra come il non giusto non sia sempre evidente ma si nasconda dietro una facciata di rispettabilità e di liceità.
Il secondo “eroe” è un incapace intelligente, intestato a essere un svigorito insegnante di lettere. Colto, timido, onesto e idealista – forse troppo – che appare oramai quasi fuori dal (suo) tempo e che si trova a usare la sua cultura e la sua “ragione” lontano dalla sua consona “missione didattica”, surrogandosi in un ruolo e in una funzione non a lui devoluta, né dai suoi sodali (anche di partito) richiesta. In fondo anch’egli invade il campo altrui, commettendo alla fine l’errore fatale di scoprire – o meglio mostrare come scoperta – una fitta rete di corruzione e omertà, che rappresenta il pessimismo di Sciascia di fronte all’impossibilità di cambiare il destino della Sicilia. La fine di questo secondo “eroe” evidenzia come la sua “colpevole” (e quindi ritenuta “giustamente” punibile) ingenuità lo conduca a una sorte tragica, rappresentando il fallimento dell’intellettuale di fronte al potere legittimo (dovuto ed esercitato) per convenzione e non per diritto.
In mezzo le due figure “ontologicamente” indiscutibili. La Chiesa e la donna.
Nel romanzo la Chiesa ha un ruolo ambiguo e alterato. Agisce come un’antica e potente istituzione che si oppone alla verità che non protegge i propri interessi. La sua adulterazione è manifestata nel supporto e nella complicità nel coprire le attività non devolute al proprio ministero. Appare come un centro di imputazione di interessi che pare esercitare un potere quasi incompatibile con uno stato di diritto (sempre che questo abbia una ragione di esistere).
Lo zio Arciprete del romanzo segue i legami di sangue, lasciando per strada la scomoda via della verità dei fatti. Pur essendo un uomo di chiesa, aiuta i potenti e i collezionisti di arte. Non può sottrarsi ai bisogni di “questa” terra (il “parva cena”, nel film, appare emblematico). E’ uno dei principali artefici e protettori della rete di potere che il docente (anti)”eroe” cerca di smascherare. Conosce la verità ma cerca di insabbiarla. Rappresenta l’ipocrisia e la corruzione che si nascondono dietro la facciata di irreprensibilità.
L’altra coprotagonista è la donna. Un certo tipo di donna presente nei luoghi del racconto. La vedova della vittima iniziale nel romanzo. Anch’essa ambigua. Appare combattuta tra verità e incombenze della vita. Per di più è madre di una bambina. È un personaggio che pur collaborando inizialmente con le indagini (private) è in realtà complice del misfatto per motivi di potere e sociali. Rappresenta la forza della sensualità e il peso delle convenzioni che la portano (per conservare il rango) a scegliere l’egoismo e la protezione della sua posizione, posando una pietra tombale su tutto e su tutti, allorché sposa il responsabile del misfatto che l’ha resa vedova ma libera.
Lo sfondo, il panorama, lo scenario locale in cui Sciascia ambienta e rappresenta il potere che lui individua – riteniamo negli anni di quella sua residenza – è ritratto come un sistema apparentemente invisibile, in apparenza innocuo, inoffensivo, da provincia “vinta”. Il significato è che, in un mondo dominato da tali dinamiche, la verità è impotente e il sistema premia l’ipocrisia mentre coloro che cercano giustizia come il professore del romanzo (definito nella scena finale dell’omonimo film di Elio Petri, “Un cretino”) vengono sconfitti, ottenendo infine, in senso tragico, “ciò che gli spetta”.
Vorremmo chiudere questo nostro reportage con una celebre locuzione di un (altro) nostro autore preferito, Luigi Pirandello. Quanto sopra e quanto in romanzo è naturalmente una finzione, un qualcosa che non è. L’Autore nativo del Caos affacciato sul mare africano affida il “tutto” al relativismo conoscitivo, all’idea che la verità oggettiva non esista ma che sia sempre e meramente soggettiva e mutevole. In fondo, la realtà che ci circonda è la prova vivente della impossibilità di raggiungere una verità assoluta, perché ognuno ha una propria “realtà” che lo fa vivere meglio, più comodamente, con il pregio – indefettibile – che non necessità di essere validata dalle altre.
Che sia questa la forza dell’eroe “Locale”?
Naturalmente.
“Così è…se vi pare”.






