Il Reportage del lunedì. Quel “barbuto” di Garibaldi e la città nei secoli ….“fedele”

Lillo Ariosto
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Nella seconda metà degli anni Novanta, grazie al regalo di un’amica, venimmo in contatto con una novità editoriale che inaugurava il romanzo giallo di provincia che, nel titolo, richiamava una nota strada panormita che avevamo frequentato nei nostri anni universitari. La lettura del racconto ci fece scoprire la bellezza dei luoghi cosiddetti “minori”, lontano dalle grandi “piazze” di Londra o Parigi, dove hanno da sempre trovato ambientazione i grandi “thriller” dell’editoria.

Da lì la voglia di conoscere i luoghi a noi più vicini, abbandonando (anche in ragione del procedere dell’età anagrafica) “fantasie” che ci vedevano immaginari protagonisti in grandi città, in gioventù, ritenute mete agognate.

Abbiamo così (ri)scoperto il piacere di vedere (e non solo guardare) ciò che ci circonda, cogliendo aspetti e luoghi prima poco conosciuti, con storie e vicende a noi prima non note. Questa voglia col tempo ci ha portato a (ri)tornare ad abitare nel centro storico della nostra città da cui da oltre tre decenni ci eravamo allontanati.

L’acquisizione di un immobile con una certa storia (Johann Wolfgang von Goethe docet…. ma di questo forse ne parleremo un’altra volta) ci ha aiutato in questa decisione di cui (a differenza si chi ci ha ritenuto poco avveduti) siamo convintamente contenti.

Complice lo scollinamento (abbondante) della metà dei “nostri anni Sessanta”, col tempo abbiamo assunto scherzosamente il ruolo del “flâneur” che cammina per la città senza fretta, godendosi l’esperienza di contemplare il mondo e la folla da una posizione di osservatore distaccato ma immerso.

Questo termine francese, reso celebre da Charles Baudelaire, si attaglia alla nostra (nuova) voglia di recitare la parte, prestando (maggiore) attenzione alla vita urbana che ci circonda, cercando di cogliere dettagli e aspetti che forse sfuggono ai più.

Qualche tempo fa, durante una passeggiata post prandiale con lo scopo di gustare un buon caffè, ci siamo imbattuti nel busto di quel “barbuto” di Garibaldi, posto al centro di quello che un tempo era il “piano delle fosse” (antica sede di ricchi silos di prezioso grano e altre derrate alimentari) e dall’unità d’Italia promossa “spontaneamente” a piazza Calatafimi. Da lì la (personale) riflessione su quanto descritto nel nostro romanzo prediletto (Il Gattopardo) di Tomasi di Lampedusa su quei giorni del “radioso” maggio del 1860 che videro il “barbuto” in camicia rossa protagonista di un’impresa dalla storiografia ortodossa descritta come eroica, che portò all’annientamento del Regno delle due Sicilie con la “… la felice annessione, volevo dire dopo la fausta unione della Sicilia al Regno di Sardegna” (dialogo tra Chevalley e il principe Salina, nel Gattopardo) e quindi all’unità d’Italia sotto l’egida sabauda.

L’eroe dei due mondi invero non visitò mai in quei giorni di maggio Caltanissetta.

Dopo l’ingresso a Palermo, del 27 maggio 1860, viene decisa l’avanzata all’interno dell’Isola di una colonna di circa cinquecento uomini al comando dell’Ufficiale ungherese Istvan (Stefano) Turr, ex tenente dei granatieri ungheresi, già facente parte dell’esercito austriaco, passato disinvoltamente nel gennaio del 1849 nelle file dell’esercito piemontese.

A dir del vero neanche il (nel frattempo) divenuto generale Turr entrò a Caltanissetta, dal momento che dovette lasciare il comando della colonna ad altro ungherese, tale Nàndor Eber, inizialmente al seguito dei Mille come corrispondente inglese del Times, nella realtà agente informatore di Garibaldi sulla dislocazione e sulle strategie di battaglia delle truppe borboniche. Sarà quindi questo antesignano “007” e colonello di facciata ad entrare a Caltanissetta alla testa delle camicie rosse.

Anche se, come vedremo, un “aiutino” forse lo ricevette.

In città la difesa borbonica in quel momento è affidata a circa quattromila uomini, venuti come rinforzo da Piazza Armerina, al comando del generale Achille Afan de Rivera che – guarda caso – troverà comodo alloggio nel palazzo del barone Di Figlia, distintosi nei precedenti moti insurrezionali antiborbonici del 1820 e del 1848.

Le cronache danno come spontanea una rivolta della popolazione che notte tempo si getta per le strade con tanto di coccarde tricolori al petto, inneggiando a Vittorio Emanuele, in quel momento – solo – re di Sardegna. Si temono bagni di sangue e strenui combattimenti. Non è però nella tradizione locale. Qualcuno o qualcosa viene in soccorso. Grazie alla provvidenziale mediazione tra Afan de Rivera e il barone Di Figlia verranno “provvidenzialmente” evitati incidenti e scontri cruenti con le truppe borboniche, che lasciano – senza imbracciare le armi – la città il 26 maggio.

Subito dopo il tricolore appare sulle rovine del castello di Pietrarossa mentre in città la nuova bandiera viene sventolata dal (divenuto) capo degli insorti Giulio Bartoccelli dei baroni di Altamira.

Nello stesso giorno il barone Francesco Morillo di Trabonella viene posto a capo di un Comitato Provinciale cui vengono demandati i poteri provvisori. Garibaldi quindi lo nomina Governatore del Distretto di Caltanissetta e sarà Morillo stesso a fare “una prima offerta di cento salme di ottimo grano….” e altri beni a sostentamento della causa garibaldina.

Nel frattempo il 17 giugno Vincenzo Minichelli, che presiede il Consiglio Civico, delibera l’annessione di Caltanissetta al Regno d’Italia, con immediata intitolazione della piazza (sin lì) Ferdinandea a Giuseppe Garibaldi.

Tutto sembra tranquillo, pacifico, discreto, calmo, sottotraccia come da tradizione cittadina, se non fosse che il successivo 29 giugno, saputa della delibera consiliare, una folla inferocita irrompe nel palazzo oggi della Camera di Commercio, all’epoca sede del Consiglio Civico, pretendendo di far ripetere il voto di annessione con la successiva e immediata convocazione di un plebiscito popolare.

Il popolo – ora armato di sacro fuoco – vuole partecipare alla importante decisione.

I maggiorenti sono sorpresi dall’inusuale zelo partecipativo della popolazione ma non resta che riconvocare, con qualche timore, il Consiglio e (ri)deliberare l’annessione, senza però indire alcun plebiscito ma più cautamente far ratificare la solenne determinazione mediante la apposizione delle firme della cittadinanza su un registro posto su un tavolo all’aperto sulla piazza fresca della nuova intitolazione. Quindi (ripetendo la scena di Sedàra nel Gattopardo di Luchino Visconti) proclamare urbis et orbis la sottomissione della città al re sabaudo.

Per ulteriore paradosso il primo firmatario pare sia il canonico Salvatore Speciale. Il povero sacerdote certamente non può in quel momento sapere della futura emanazione della legge del 28 giugno del 1866 n.2987, facente parte di un corpus normativo che porterà alla eversione dell’asse ecclesiastico, con la soppressione di ordini e corporazioni religiose e l’incameramento dei loro beni da parte del nuovo Stato unitario. 

A conferma del particolare “luogo” che Caltanissetta pare rivestire nella sua storia, va evidenziata un’altra “strana” circostanza. Gli storiografi locali del tempo assumono che in quella primavera avanzata del 1860 due personaggi di spicco del regime borbonico, Liborio Romano, ministro della polizia di Francesco II, ultimo re delle due Sicilie, spazzato via dalla spedizione garibaldina e Pasquale Calvi,  noto alla stessa polizia borbonica come pericoloso irredentista messinese, giungano a Caltanissetta per un incontro segreto con (al momento) i rivoltosi risorgimentali Michele e Biagio Tortorici, i fratelli Liborio e Calogero Marrocco, in uno al neogovernatore Morillo di Trabonella che li ospita nel proprio palazzo.

Morillo di Trabonella presenta a Romano e Calvi uno straniero, emissario di Garibaldi, con cui concordano l’entrata a Caltanissetta – senza alcun spargimento di sangue – della colonna garibaldina comandata dal colonello Eber. Tale personaggio risponde al nome di Alessandro Dumas padre, autore del Conte di Montecristo e della trilogia dei Moschettieri di Francia.

Le cronache non riportano il tenore della loro conversazione. Tutto però va per il meglio. Nessuno spargimento di sangue. Nessuna battaglia. Sarà un passaggio indolore da uno Stato all’altro. Il popolo nisseno non pagherà nessun tributo di sangue mentre Romano e Calvi si troveranno ad essere deputati nel nuovo Regno d’Italia.  

Morillo di Trabonella conserverà perennemente il ruolo apicale in città. Alessandro Dumas avrà una lapide ancora oggi affissa al prospetto principale di palazzo Trabonella. Ferdinad Eber, divenuto nel frattempo colonello dell’esercito garibaldino, avrà intitolata una via della città.

Tutto si conclude (o si avvia) il 2 luglio del 1860 quando – come scrive lo storico Mulè Bertolo – il nuovo Governatore, il nuovo Magistrato, le nuove Autorità e tutti “i più ragguardevoli cittadini, i popolani con rami di olivo, insofferenti ad attendere gli animosi soldati della patria muovono all’incontro sino al declivio settentrionale del San Giuliano, ove un grido poderoso di “Viva l’Italia; viva Garibaldi; Viva Vittorio Emanuele” accolgono i (nuovi) liberatori.

A suggello del “nuovo” ordine benevolmente raggiunto il 7 luglio si terrà una meravigliosa festa nella Villa Isabella (oggi Villa Amedeo). 

Giuseppe Cesare Abba, altro letterato al seguito di Garibaldi, descriverà l’evento in questo modo: “Festa da fate. I viali del giardino parevano di fuoco: il verde degli alberi e delle spalliere luccicava di splendori metallici; le donne di Caltanissetta coi mariti, coi fratelli, con noi [Garibaldini] parevano una famiglia innumerevole che si rallegrasse là dentro di qualche lieta avventura. Rinfreschi, vini e dolciumi, tanto da satollare per una settimana tutti i poveri della città; si ballò, si conversò, si dissero cose di libertà e d’amore“.

Qui finisce la partita.

Pensando alle perplessità di Ippolito Nievo, anche lui (altro) letterato e tesoriere dei Mille, “sfortunatamente” morto “per naufragio” il 4 marzo 1861 mentre era imbarcato sulla nave Ercole, che trasportava i documenti contabili dell’eroica impresa da Palermo a Napoli, ci sovviene il titolo di un celebre film degli anni Novanta, diretto da James Brooks, dal titolo emblematico: “Qualcosa è cambiato”.

Che sia il caso di aggiungere un punto interrogativo?

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