Il Reportage del lunedì. Un lascito, un voto, un’opera d’arte, un sopruso, un’astuzia. Lo “Spasimo” di Raffaello. A Caltanissetta

Lillo Ariosto
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Una costante ha segnato la nostra vita: la fortuna di avere avuto “bravi maestri”.

Uno di questi è stato il nostro professore di lettere al liceo scientifico, Sergio Mangiavillano, con cui dopo alcuni (naturali) contrasti giovanili abbiamo coltivato un rapporto di rispetto e di stima reciproca. Purtroppo il destino l’ho ha strappato alla vita qualche anno addietro. Di lui conserviamo un perenne caro ricordo. Di grande curiosità e intelligenza ha lasciato una importante serie di opere letterarie.

Recentemente ne abbiamo riletto una. Particolare, enigmatica, oscura se non equivoca, su un presunto mistero “tutto siciliano”, dal titolo “L’impostura dell’abate Staropoli”.

Nelle sue pagine si narra di uno stratagemma, se non del sospetto di esso, o ancora meglio di una sua “supposizione”, dove avrebbe avuto un importante ruolo la città di Caltanissetta. Più volte l’abbiamo descritta come una sede in apparenza sonnacchiosa, indolente, lontana dai grandi eventi, che invece ci si è rivelata luogo di vicende dai risvolti indecifrabili e impensati.

Tra le (varie) passioni che ci animano (e non sono poche…. per fortuna), negli anni della nostra maturità, abbiamo scoperto quella dei dipinti, soprattutto antichi. In un viaggio a Vienna abbiamo apprezzato la visita ad un museo – dal per noi impronunciabile nome (Kunsthistorisches Museum) – dove abbiamo ammirato le opere di Diego Velasquez, ritrattista seicentesco alla corte di Filippo IV di Spagna. Questo potente sovrano pare sia stato involontario protagonista – in suo danno – di una vicenda riguardante un’opera pittorica oggi esposta al Museo Diocesano di Caltanissetta: “Lo Spasimo di Sicilia”.

Analoga opera è pure esposta al museo del Prado a Madrid.

Il dipinto doveva essere inserito sopra l’altare maggiore nella chiesa destinata ad ospitare i monaci olivetani di Santa Maria dello Spasimo a Palermo, edificata grazie al lascito di una nobil donna. Il coniuge superstite, Giacomo Basilicò, per onorare la memoria della amata moglie aveva pensato a un dipinto da far realizzare da uno dei maggiori artisti del tempo. Rivoltosi all’amico umanista Giano Vitale, palermitano trasferitosi a Roma, entrato nelle grazie di Papa Leone X che lo aveva creato abate e conte palatino, questi ebbe ad indicare il celebre Raffaello Sanzio da Urbino.

Grazie alla potente intercessione di un cardinale intimo del Papa, l’Urbinate accettò l’incarico e messosi all’opera dipinse su una tavola una scena del martirio di Cristo, ideandola come un riassunto delle stazioni della via crucis. Una folla di personaggi circonda il Cristo sofferente, schiacciato dalla pesante croce che porta verso il Calvario. Alle sue spalle un cireneo, a destra la Madonna in espressione dolente, con accanto la Maddalena e le pie donne. In evidenza i soldati romani e un vigoroso centurione che lo scortano. Sullo sfondo un paesaggio luminoso e sereno in contrasto con la drammaticità della scena.

Appena ultimata, la tavola di Raffaello viene imbarcata su una nave alla volta di Palermo. A questo punto, come narra lo storico dell’arte del tempo, Giorgio Vasari, “un’orribile tempesta percosse ad uno scoglio la nave che la portava, di maniera che tutta si aperse, e si perderono gli uomini e le mercanzie”. Insomma il prezioso dipinto sprofonda negli abissi marini.

Pare perduto per sempre.

Senonché, passati due mesi, ai monaci olivetani insediati nella chiesa dello Spasimo, arriva la notizia che il dipinto è stato miracolosamente ripescato, senza avere subito alcun danno o alterazione (e qui starebbe il miracolo) nei pressi di Genova.

Qui l’opera – continua il Vasari – viene reimbarcata per la Sicilia, per essere finalmente collocata nella sua originaria sede, dove riposerà tranquilla per quasi un secolo e mezzo. Potrebbe essere il lieto fine di una malasorte sfiorata. Ma non è così. A quanto pare alla vanità e alla sete di potere non sfugge nessuno. Neanche i poveri monaci olivetani della chiesa di Santa Maria dello Spasimo.

Accade infatti che Fernando Antonio de Ayala, potente Vicerè di Sicilia dal 1660, plenipotenziario del sovrano di Spagna, pretenda a forza dai monaci il prezioso dipinto allo scopo di farne dono al re Filippo IV di Spagna, nell’aspettativa di ricevere migliore incarico rispetto al vicariato di Sicilia, considerata una provincia minore dello zenit territoriale raggiunto in quel momento della corona spagnola.

I poveri monaci olivetani non intendono aderire alla prevaricazione del de Ayala e fanno ricorso alle alte gerarchie ecclesiastiche, senza però conseguire alcun risultato.

A questo punto interviene la “Provvidenza” tutta siciliana che nulla ha a che spartire con quella divina.

L’abate a capo di quell’Ordine Olivetano, tale Clemente Staropoli, è simpatizzante di Luigi Guglielmo Moncada conte di Caltanissetta, cui era stato offerto da alcuni congiurati il trono spagnolo. L’abate chiede e ottiene un incontro, a palazzo Ajutamicristo, con Giacomo Moncada, cadetto della potente nobile famiglia. Nell’incontro l’abate, dopo essersi lamentato dei soprusi e del comportamento del Vicerè (conoscendo la contrapposizione che il principe Giacomo nutre nei confronti di questo), fa intravedere una “via d’uscita” dalla violenta pretesa o meglio “una via d’uscita (dal convento) al quadro”.

Giacomo Moncada non si oppone e anzi invia quella stessa notte un carro condotto da due suoi uomini di fiducia, che prelevano il prezioso dipinto, nascondendolo tra la paglia e le altre masserizie trasportate. Nel contempo, l’intraprendente abate ha fatto già realizzare presso una bottega palermitana di maestri d’arte una perfetta copia dell’opera e che è già collocata sull’altare maggiore in luogo dell’originale. Due giorni dopo, approfittando di una visita a Caltanissetta per il disbrigo di alcuni affari riguardanti la contea nissena, il quadro e il principe Giacomo Moncada arrivano in città.

Il principe si reca nella residenza di famiglia, in attesa del completamento del palazzo iniziato da Luigi Guglielmo Moncada, mentre il dipinto prende la strada del convento benedettino di Santa Croce, alla Badia, sotto la custodia diretta della abbadessa Donna Petronilla Di Forti.

La storia continua con i dubbi atroci di Flippo di Spagna sull’autenticità dell’opera consegnatagli dal Viceré d’Ayala e oggi esposta al museo del Prado di Madrid. I dubbi sono così forti che il potente sovrano nega i donativi promessi al convento e soprattutto non concede alcuna alta carica al de Ayala. Questi inizia delle indagini che però non portano a nulla.

Il quadro rimane nascosto nel convento delle benedettine nissene per quasi due secoli, sino alla chiusura dello stesso. Grazie alla intuizione e alla passione per le opere d’arte di monsignor Giovanni Speciale il dipinto viene ritrovato e portato nella sede del palazzo vescovile di Caltanissetta, dove anni dopo verrà creato il prezioso Museo Diocesano.

A dire del vero gli stessi dubbi che tormentarono Filippo IV aleggiano sul (preteso) originale da noi osservato, qualche giorno addietro (in previsione di questo reportage), nelle sale dell’incantevole Museo Diocesano di Caltanissetta.

A quel quadro ci siamo affezionati e – distanti dagli abusi del potere – amiamo pensare di avere ammirato nella nostra città l’originale della tavola cinquecentesca del grande Raffaello Sanzio da Urbino.

P.S.

In anni recenti la tavola esposta al museo diocesano di Caltanissetta è stata sottoposta ad attenti esami tecnici con l’ausilio delle moderne strumentazioni (esami multispettrali, analisi dei pigmenti, datazione carbonio 14, esami spettrografici ed altri test più sofisticati). Tali accertamenti pare non avere dato conferma di quanto assunto sull’opera ascritta a Raffaello.

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