La fabbrica della distrazione

Giovanni Proietto
8 Min Leggere

Così ci programmano l’attenzione: algoritmi, design e business monetizzano ogni secondo online.

Ogni giorno apriamo lo smartphone centinaia di volte, per dare solo un’occhiata. Invece restiamo li incollati ad esso, a scorrere un flusso senza fine di video, musiche e notifiche. In media passiamo sette ore al giorno davanti a uno schermo. Non è solo il tempo che investiamo ma  anche la nostra attenzione.

Nel 2013, Tristan Harris — allora esperto di etica del design — in una presentazione interna, suggerì a Google, Apple e Facebook, di “sentire un’enorme responsabilità” nel garantire che l’umanità trascorra le sue giornate sepolta in uno smartphone. In una intervista alla CNBC Harris disse: “Stiamo puntando i supercomputer più potenti del mondo contro il nostro cervello per distoglierne l’attenzione. In realtà, considero questa una minaccia esistenziale. Quando si plasma l’attenzione delle persone, si plasmano anche i loro pensieri”.

Anche il premio Nobel Herbert Simon, nel 1971, avvertì che “l’abbondanza di informazione genera povertà di attenzione”.

L’attenzione è oggi la principale risorsa strategica delle piattaforme digitali, la nuova frontiera del potere, su cui si misurano le nuove forme di influenza, profitto e controllo, il cui valore economico si misura in secondi e non in unità di prodotto.

L’attenzione è il nuovo petrolio. Ogni minuto trascorso davanti a uno schermo si traduce in profitto per le piattaforme digitali. ll meccanismo è sottile, invisibile ma inesorabile. Si nutre dei contenuti che produciamo online. Ogni sguardo, ogni emozione, ogni clic, perfino i silenzi e le pause diventano dati. Così la nostra attenzione viene catturata e analizzata da potenti algoritmi, che osservano, registrano e imparano dai nostri comportamenti.

Sanno tutto di noi. Cosa ci piace e cosa no, cosa ci spinge a scorrere le pagine, cosa ci tiene incollati allo schermo un minuto di più.

Ecco perché i giganti del digitale si contendono la nostra attenzione, la nuova moneta di scambio. Dietro il gesto apparentemente innocuo dello scrolling si nasconde un preciso disegno di ingegneria comportamentale per generare profitti.

“Facebook, Snapchat, Twitter, Instagram sfruttano gli stessi circuiti neurali usati dalle droghe e dalle slot machine per indurci a stare il più tempo possibile sulle loro bacheche”, scrive la giornalista Lisa Iotti, nel suo libro “8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione”.

Lo scrolling prolungato è associato a alterazioni del sonno/melatonina, affaticamento e secchezza oculare e potrebbe attivare meccanismi di ricompensa simili a quelli mediati dalla dopamina. Come ha osservato Chris Anderson, ex direttore di Wired USA, “su una scala che va dalle caramelle al crack, lo schermo è molto più vicino al crack”.  

Uno studio pubblicato sul Journal of Human Development and Capabilities, condotto su oltre 100.000 giovani, mostra che possedere uno smartphone prima dei 13 anni è associato a peggioramenti della salute mentale e del benessere psicologico in età adulta. Chi riceve il primo smartphone a 12 anni o prima presenta poi una maggiore probabilità di pensieri suicidi, aggressività, distacco dalla realtà, difficoltà emotive e bassa autostima.

Secondo la neuroscienziata Tara Thiagarajan, coautrice dello studio, gli effetti derivano da un intreccio di fattori: uso precoce dei social media, cyberbullismo, disturbi del sonno e tensioni familiari, generando sintomi che spesso sfuggono ai criteri tradizionali di depressione o ansia ma che possono avere gravi conseguenze sociali.

Gli autori precisano che non è provato un nesso causale diretto, ma l’ampiezza del fenomeno giustifica un approccio precauzionale e propongono quattro azioni concrete: Educazione obbligatoria alla cittadinanza digitale e alla salute mentale; controlli più severi sull’età di accesso ai social media e sanzioni per le aziende che li eludono; limitazione d’uso dei social; restrizioni graduate per l’uso degli smartphone.

Diversi ricercatori — tra cui gli psicologi Jonathan Haidt e Jean Twenge – che hanno documentato l’impatto dell’uso precoce degli smartphone sulla salute mentale – segnalano un’erosione progressiva dell’autonomia mentale. È una preoccupazione che chiama in causa la necessità di una regolamentazione etica su scala globale.

I dati raccolti negli ultimi anni mostrano una correlazione preoccupante: chi riceve uno smartphone prima dei tredici anni presenta, in età adulta, livelli più elevati di ansia, comportamenti aggressivi e una tendenza al distacco emotivo. Si tratta di un segnale chiaro: l’esposizione prolungata e precoce a piattaforme progettate per massimizzare il coinvolgimento potrebbe compromettere il capitale cognitivo di un’intera generazione.

“L’infanzia basata sul telefono ha fallito, portando ansia e isolamento – scrive Haidt in “La generazione ansiosa”. È ora di interrompere questo esperimento digitale e riportare i bambini al mondo reale”.

L’economia dell’attenzione è una forma di governance invisibile, progettata per massimizzare clic e permanenza, premiando ciò che genera reazioni forti: indignazione, paura, rabbia, entusiasmo. Così la mente umana diventa un giacimento da sfruttare, con una differenza fondamentale rispetto alle risorse estrattive del Novecento: non si trova fuori di noi ma dentro di noi.

Il progresso tecnologico è inevitabile ma non può ridurre le persone a dati da processare. La centralità umana è inviolabile.

Negli ultimi anni, si è diffuso un movimento di resistenza. Il “digital detox”, i telefoni con funzioni limitate, la mindfulness tecnologica: tutti segnali di un bisogno crescente di riconquistare tempo e silenzio.

In Europa, il Digital Services Act tenta di imporre maggiore trasparenza sugli algoritmi e sui modelli pubblicitari. Alcune startup stanno sperimentando piattaforme che non monetizzano i dati, ma si basano su abbonamenti o donazioni. E in ambito educativo si comincia a parlare di alfabetizzazione digitale dell’attenzione: insegnare non solo come usare la tecnologia, ma come non esserne usati.

Il sociologo Francesco Pira, in una recente riflessione, scrive che “donare è resistere: costruire umanità nell’epoca del disimpegno. In un’epoca in cui la società sembra disgregarsi sotto il peso della velocità digitale, dell’anonimato delle piattaforme e della diffusione di notizie distorte, parlare di donazione può apparire anacronistico. Eppure, proprio oggi, in una contemporaneità segnata da frammentazione e sfiducia, il dono si riafferma come gesto etico e simbolico, semplice ma rivoluzionario, dice Pira. Una forma concreta di resistenza morale capace di ricucire i legami e contrastare la deumanizzazione che attraversa molte dinamiche della contemporaneità, dove l’indifferenza e la distanza rischiano di sostituire la prossimità>>.

Il primo passo, allora, in un mondo che misura il valore in secondi di attenzione e in numero di like, è regalare tempo a qualcuno. Ascoltarlo davvero, stargli accanto, condividere una presenza non filtrata da uno schermo. Non si tratta di fuggire dalla tecnologia, ma di sottrarre una parte del proprio tempo al mercato del digitale per restituirlo alla relazione umana.

Donare tempo, in fondo, è il modo più semplice — e forse il più rivoluzionario — per resistere all’economia dell’attenzione.

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