L’Ape regina e i fuchi inconsapevoli

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Ne parlano poco i giornaloni delle motivazioni della Cassazione alla sentenza con cui è stato cancellato il “sistema Montante”, sostituito da una serie di reati individuali commessi da quello che nella sentenza viene definito “l’ape regina” cioè “un punto di riferimento per tutti, che tutto muoveva e attorno al quale tutto girava, ma al di fuori di una struttura organizzata”.

63 pagine che potrebbero essere uscite dalla penna di Pirandello, in cui si conferma il coinvolgimento di esponenti di spicco delle forze dell’ordine, del mondo istituzionale, dell’imprenditoria, ma, ecco il punto-chiave, “una struttura monca, senza legame, con partecipi ignari di tutto, con reati fine isolati e fra loro scissi, senza la condivisione di un programma unitario” con “una serie di condotte svincolate e caratterizzate da finalità egoistiche individuali”.

Un vero e proprio slalom tra diritto, sociologia e psicopatologia, per dimostrare che nessuno dei fuchi che ruotavano intorno all’”ape regina” era consapevole di essere “parte di un tutto”, “di una macchina, di una struttura che fonde le singole condotte e le unifica sotto un interesse comune che prescinde da quello individuale”.

Nello stesso tempo, la parabola di Montante, per alcuni anni uno degli uomini più potenti del Paese, vice-presidente nazionale di Confindustria, Presidente di Unioncamere Sicilia, componente dell’Agenzia per i Beni confiscati alla mafia, “apostolo della legalità” (come lo definì un ministro dell’Interno), viene enfatizzata notando come tutto ruotasse intorno “alla sua ascesa sociale, al consolidamento sempre maggiore del suo potere sul territorio, alle sue relazioni, al generale contesto clientelare originato dal livello altissimo delle relazioni, al suo credito reputazionale acquisito, al consenso diffuso creatosi”.

Però, chi entrava nel “cerchio magico” di Antonello, secondo la Cassazione non se ne rendeva conto, pensava di coltivare una amicizia individuale, “senza ricevere alcunché in cambio”. Giustificazione che suona sprezzante per gli uomini dello Stato che erano stati coinvolti nel “sistema” e che ora ne vengono svincolati dalla sua negazione, ma al prezzo della loro descritta insipienza del contesto criminale in cui si sono trovati coinvolti: “Una partecipazione ad una associazione criminale rispetto alla quale non sarebbe stato noto ai più né il programma delittuoso condiviso, né i soggetti che avrebbero fatto parte del sodalizio, né la dimensione collettiva dell’agire illecito e neppure il vantaggio derivante dal reato”. Una specie di Carboneria borbonica, più o meno.

Una macchina argomentativa pirandelliana della migliore qualità, un teatro dell’assurdo in cui le contraddizioni si sovrappongono per elidersi a vicenda, ma un obiettivo raggiunto: il Sistema, negando il “sistema”, ha espulso il corpo estraneo, diventato ingestibile, e le acque si richiudono su di lui come dopo il lancio di una pietra nello stagno. Ancora una volta il “Sistema” quello grande, quello eterno, muove le vicende pubbliche senza fare mai oltrepassare, a nessuno, la soglia della propria inviolabilità.

La giustizia persegue reati individuali (era questa la scuola di pensiero giuridico prima che si riconoscesse il reato di associazione mafiosa), e tutto il resto non esiste. Se non lo si vuole vedere.

Così è, se vi pare

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