La scoperta del ciondolo e della moneta
Uscì dal palazzetto poligonale della questura. Anche se era poco più di metà pomeriggio una sferzata di vento autunnale andò ad infrangersi sulle mascelle tese di Falconara. Si alzò il bavero del loden e istintivamente si voltò indietro con lo sguardo rivolto alla finestra del suo ufficio. Vide accendersi la luce. Solo un attimo. Qualcuno aveva forse sbagliato porta.
Proseguì in direzione della sua Golf bianca. Salì in macchina e mise in moto in direzione di casa. Il traffico era il solito. Lento, sonnacchioso, pigro come era Calatorre, città un tempo operosa prima che la “febbre da ufficio” ne divorasse l’anima.
Falconara aveva abbandonato l’angustia e il rimpianto per i tempi vissuti da giovane studente. Aveva recintato la sua vita con i piccoli piaceri che lo aiutavano a (sopra)vivere. Le letture, la musica, le (poche) amicizie conservate, quelle – alcune – salvate.
Dopo meno di una ventina di minuti al volante, sotto una pioggerellina fine, arrivo sotto casa, nel vecchio palazzetto gentilizio nel corso principale. Trovò parcheggio. Azionò il telecomando della chiusura centralizzata che serrò le portiere della Golf ed entrò nel vecchio baglio dello stabile adibito a cortiletto multiuso.
Era di nuovo occupato da quella mezza dozzina di ragazzini autori della pallonata scansata il giorno prima. Se ne stavano seduti sugli scalini del piccolo bastioncino che una volta portava agli alloggi della servitù dell’antico proprietario latifondista. Alla sua vista i ragazzi iniziarono a bisbigliare tra di loro. Alcuni erano di origine magrebina perfettamente integrati con gli altri compagni indigeni o meglio loro lontani parenti, visto che erano separati da non più di qualche decina di generazioni.
Falconara si avvicinò ma piuttosto che destare timore vide schiudersi diversi sorrisi. Divertito e anch’egli si rivolse alla allegra ciurma. “Che c’è non avete mai visto un poliziotto senza divisa che torna a casa?”
La domanda spense improvvisamente l’apparente allegria. Il più spigliato dei ragazzini, con i capelli corti e una maglietta rosanero del Palermo, senza timore e quasi imperioso, di rimando, si rivolse all’indirizzo di Falconara.
“Sei quello che ha rapito Beniamino. Dove lo hai portato? Ora, quelli del canile, lo ammazzano, vero? Mio nonno me lo diceva che quelli della polizia prendono a bastonate quelli che non la pensano come loro. Mi ha raccontato che lui da giovane, quando era studente, i poliziotti lo prendevano a calci e a sberle davanti alla scuola”.
Falconara fece due conti e comprese che il nonno di quel piccolo dissidente doveva avere quasi settant’anni e sicuramente era stato uno di quegli studenti “sovversivi”, titolari di qualche fascicolo chissà dove giacente negli archivi dell’ex ufficio politico della questura.
Falconara non si fece intimorire. “Ma tu sei Massimo, il figlio dell’ingegnere che lavora alla Provincia?”
Il ragazzo sembrò perdere qual piglio che lo aveva animato, abbassando il capo in segno di assenso.
“Ma nonno tuo non lavorava alla banca vicino la villa Mazzini?”
Falconara conosceva bene il papà e il nonno di Massimo. Il primo per una indagine su un appalto pubblico sospetto, il secondo – il “sovversivo” – per un vecchio mutuo ipotecario concesso, quasi a tasso usurario, al padre di Falconara per l’acquisto della casa in cui abitava. Mise da parte entrambe le circostanze e aprendosi a un sorriso accattivante, si rivolse a tutti i giovanottini che avevano assistito al duello verbale fra il commissario e Massimo.
“Guardate che sbaglio c’è. Beniamino non l’ho rapito e nemmeno portato al rifugio sanitario, così si chiama quello che per voi è il canile pubblico, per farlo sopprimere. Nessuno sopprime gli animali randagi, al più si sterilizzano e io sono anche contrario a questa pratica. Beniamino l’ho riporto alla padrona, la signora Lo Celso, quella che abita al terzo piano. Il gattino è suo e le serve da compagnia. Beniamino ora sta bene. Meglio di un pascià”.
Il gruppetto di ragazzini sembrò sgranarsi attorno a Falconara. Per un attimo temette un accerchiamento da cui, stante l’età dei guaglioncelli, sarebbe stato problematico se non rischioso sottrarsi.
Uno di loro, Giovanni, l’inventore della impresa eroica del cane che avrebbe voluto brandire Beniamino, invece falsamente salvato da commissario, improvvisamente gridò: “Ma allora questa collana è del gatto. C’è scritto “Teresa Lo Celso”.
Falconara vide che qualcosa di scintillante veniva tirato fuori dalla tasca di quel monello buono. Anche lui tirò fuori qualcosa dalla sua giacca. Era una banconota di dieci euro.
“Sapete che la legge prevede una ricompensa per chi trova un oggetto smarrito? Consegnatemi la collana che la riporto alla padrona del gatto, che è quindi la proprietaria anche della collana. Eccovi dieci euro per comprarvi un pallone nuovo”.
I ragazzini iniziarono a saltare fra grida di gioia. Ma ad un tratto Massimo, quello con la maglia della squadra di calcio del Palermo, nipote dell’ex contestatore studentesco e figlio dell’ingegnere alla Provincia, zittì gli altri.
“Grazie commissario ma annoi cci attoccano solo cinque euri. La metà di quello che le stiamo consegnando”.
Falconara fu colpito, oltre che dalla sgrammaticatura “scolasticamente perfetta”, dalla onestà del ragazzo che, visti i precedenti del padre e del nonno, non si aspettava di trovare.
“Cosa significa la metà di quello che mi state consegnando?”
Massimo prese la parola, precedendo gli altri. “Commissà, noi il gatto lo abbiamo adottato. Beniamino lo abbiamo attrovato qui – solo – che miagolava. Aveva sete e gli abbiamo dato da bere l’acqua della fontanella che c’è giù al mercato. Sembrava spaventato. Lo abbiamo accarezzato e lui ci allisciava sulle gambe. Giovanni ha poi trovato dietro il muretto la collana con un ciondolo fatto da una moneta dove c’era scritto “10” e disegnata una spiga di grano, con un buco al centro. Quindi se a lei stiamo consegnando la collana, senza il ciondolo, annoi cci deve dare solo cinque euro”.
Falconara nuovamente rifletté sul lessico singolare e soprattutto su come i ragazzini siano, in fondo, tutti per bene e che è poi la vita da adulti che li “stravìa”.
“E dov’è questo ciondolo a moneta. Trovatelo che vi regalo tutti e dieci euro”.
Giovanni “il trovatore” della collana, gridò arrabbiatissimo: “Ce lo hanno arrubbato il ciondolo. Sono venuti due uomini grandi e uno, più basso, lo ha strappato dalla collana e se lo ha portato. La collana poi l’ha buttata di nuovo dietro il muretto”.
A Falconara si alzarono le antenne (o le corna) di sbirro. Un altro mistero gli si presentava. Anche questo andava risolto. Non sapeva però a cosa stava andando incontro….
Continua……

