La riconsegna di Beniamino
La solita leggera nebbia del primo mattino avvolgeva il palazzo della questura che dominava la piazza intitolata a uno dei tanti sovrani a cui la città si era dichiarata fedele. L’importante che fossero i “governativi” del momento. Le élite di Calatorre avevano sempre avuto l’abilità di schierarsi con chi mostrava di essere “il potere” del momento. Così era riuscita a navigare in mari agitati. Adesso il mare era di una calma piatta. Una bonaccia perenne che addormentava anime e coscienze.
Falconara si trovava già nel suo ufficio. Si era munito del bicchierino di caffè della macchinetta posta all’angolo del corridoio e dopo aver (dis)gustato la prima dose di caffeina lavorativa, successiva alle solite due tazze abbondanti di caffè casalingo, si era seduto alla scrivania. Iniziò a firmare gli atti predisposti il giorno prima. Controllò il format di verbale da far redigere all’arrivo di chi aspettava. Guardò l’orologio. Le nove e un minuto. Si aggiustò il nodo della cravatta. Nello stesso momento il cicalino del telefono emise la sua fastidiosa melodia. Alzò la cornetta e non profferì alcuna sillaba. Sapeva chi l’agente all’ingresso avrebbe annunciato.
“Dottore c’è la signora Teresa già Bonsignore, oggi vedova Lo Celso”.
Dall’altra parte dell’apparecchio era Lo Piparo, l’agente (non) scelto che si occupava di registrare gli ingressi.
“Minkia. Ahaaà! “- Esclamò, con sé stesso, Falconara.
– Vedi la signora? Si sta presentando in maniera ufficiale, ufficiale.
Questo lo esclamò invece ad alta voce. Constatò che la vedova si dichiarava non coniuge superstite del marito ma combinava il suo status vedovile con il cognome da nubile. Insomma non voleva rinunciare a niente. Aveva compreso che la cosa era seria. Non voleva sbagliare con il commissario da cui dipendeva la riconsegna del suo Beniamino.
“Faccia pure entrare, Lo Piparo. Però la faccia accompagnare da qualcuno. Prenda poi l’agente Melodia e lo piazzi dietro la mia porta. Non si sa mai.”
Dopo qualche minuto sentì bussare alla porta.
“Avanti, avanti. Avanti!“
Gridò Falconara.
L’agente donna, accompagnatrice della padrona di Beniamino, si presentò sull’uscio.
“La signora Bonsignore Teresa. Oggi vedova.”
Di chi, la graziosa agente Mariuccia Consalvo non lo rivelò. Falconara si congratulò mentalmente con l’agente Lo Piparo che aveva compreso la natura “armaligna” (animalesca) della vedova, scegliendo un donna-poliziotto per accompagnarla.
“Grazie agente Consalvo. Può andare. Alla signora ci penso io. Mi mandi la Sallemi per la verbalizzazione.”
Con un sorriso congedò la graziosa agente e accolse la vedova.
Il commissario e la Lo Celso si scrutarono. Rimasero entrambi in attesa della prima mossa. Come in un duello all’Ok Corral.
“Buongiorno signora. Si accomodi. Un attimo viene l’agente Sallemi che verbalizzerà al computer quello che mi vorrà dichiarare”.
A Falconara sembrò un buon inizio. Cortese, educato, accogliente.
Si sbagliava. Ad un tratto sentì il tagliente apostrofare della Lo Celso.
“E che devo dichiarare? Che dichiarare e dichiarare! Che siamo alla dogana? Cheffà la questura si trova all’estero? E poi non ho portato nessuna valigia. Nella borsa ho solo i documenti che mi ha chiesto l’altro giorno davanti l’ascensore. Ho pure la dichiarazione dei redditi, anche se quelli del Patronato si sono messi a ridere quando ho detto per cosa mi serviva. Perché non li va ad arrestare?!“
Falconara non volle andare oltre. Sorridere non era ancora un reato. Non era il caso di arrestare qualcuno che aveva osato ridere al cospetto della acida vedova. Fece accomodare la verbalizzante agente Sallemi e iniziò con i cosiddetti rituali. Nome, cognome, residenza domicilio. Venne quindi la parte riguardante il dichiarante. Falconara con voce calma quasi suadente.
“Signora, stiamo adesso tranquilli. Mi dica. Beniamino – mi è stato detto dai ragazzi del cortile che lo hanno adottato – aveva al collo una catenina, con inciso il suo nome“.
Sospettosa la Lo Celso ribattette.
“Il nome di chi?”
Falconara fu ancora più accattivante.
“Il suo di lei. Teresa Lo Celso. Ci siamo?“
La vedova con il suo solito tono appuntito, replicò.
“Vero è. Ma sbaglio ci fu. Il nome sulla catenina doveva essere “Beniamino Lo Celso” ma il dottore degli animali mi ha ordinato che dovevo fare scrivere il mio di nome. Pare che il gatto, o meglio la gatta, ero io. Però così mi disse quando ha fatto il certificato di buona salute per Beniamino. Mi ha detto che dovevo andare con la ricetta dal signor Joele, quello che ha il negozio degli animali che – anche se pure lui sembra un animale – è tanto bravo e gentile. Lui ci pensò a fare scrivere il mio nome sulla catenina.“
Falconara stava iniziando a trovare un punto di partenza della vicenda. Di colpo però si accorse della stranezza (per non dire irregolarità assoluta) del perché se ne stesse occupando, dal momento che né un delitto, né la notizia di un reato c’era. Ricordò, ad un tratto, che tutto era nato dalla intimazione che, nella rabbia, aveva rivolto alla Lo Celso davanti all’ascensore, quando si stava recando tutto contento dalla stessa per riconsegnarle il gatto. Ma oramai era troppo tardi. Chi lo diceva alla vedova che tutto era stato uno scherzo, un errore, una beffa dovuta a un momento di vaneggiamento.
“Bene signora. Avremmo finito. Adesso l’agente Sallemi, la signorina che l’ha accompagnata, la condurrà nella stanza dove c’è Beniamino e lo potrà portare a casa”.
Tutto sembrava risolto, concluso, definito. Falconara si sbagliava ancora.
“E la storia delle dieci lire? Cheffà finìo accussì? Finisce così?“
D’un tratto tuonò la Lo Celso.
“Quali dieci lire?“
Fece Falconara.
“Quelle che quel gaglioffo del garzone del negozio ha voluto che mettessi nella catenina come ciondolo. Io non ce li volevo mettere quelle dieci lire al collo del mio Beniamino. Ci avevano pure un pirtuso. Un buco nel mezzo, come i gettoni delle giostre. Come quello degli autoscontri che vengono per la fiera. Lo ha capito?“
A Falconara, di nuovo, si alzarono le antenne (o le corna) di sbirro.
Ricordò quello che i ragazzini avevano detto circa la sparizione di un ciondolo. Della persona che aveva, forse davvero, rapito Beniamino e che gli aveva strappato il ciondolo (le dieci lire bucate) dalla catenina che aveva poi buttato dietro il muretto del cortile. In quel momento gli era parsa tutta una “tragedia a contorno”, armata dai ragazzini per la paura si essere accusati del “rapimento” di Beniamino.
Falconara decise che la cosa meritava di essere approfondita.
Non immaginava su quale mala razza di mistero stava andando ad imbattersi.
Continua….
