Le vicende regionali: corsi e ricorsi storici della politica siciliana

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di Filippo Falcone

Bisogna che ce ne facciamo una ragione. La Sicilia, terra che primeggia per arancini e letteratura, è pessima terra di politica. Noi siciliani abbiamo da sempre la cattiva abitudine di sovracaricare la nostra regione di significati, di mitizzarla, di considerla posto a sé. Prendiamo la leggenda della Sicilia che anticipa le soluzioni politiche nazionali, e che è servita più a coprire le vanità politiche delle sue classi dirigenti che a portare risultati concreti. Questo ha prodotto quello che lo storico Giuseppe Giarrizzo chiamava “Sicilianismo piagnone”, cioè quel perverso gioco, che ha toccato punte di non ritorno, tra blasonata arroganza e futili piagnistei. La verità è che la politica siciliana è stata assente dal vero dibattito nazionale. Il “Caso Sicilia”, la “Questione siciliana”, sono stati solo specchi deformanti di immagini e suggestioni.  

Le ultime vicende corruttive alla Regione Siciliana, non fanno altro che riproporre quella che è stata la politica clientelare degli anni Sessanta-Settanta ed oltre. Quella politica cioè, caratterizzata allora dal sacco urbanistico di paesi e città, dell’urbanizzazione selvaggia del territorio, dei disastri ambientali, delle mani messe sulla pioggia di finanziamenti statali, per realizzare il più delle volte “cattedrali nel deserto”.   

La classe politica di oggi – quella che gestisce i cospicui fondi europei – come quella di allora si caratterizza, come in una sorta di corsi e ricorsi storici, per l’imbarazzante mediocrità, per lo scarsissimo prestigio, per la vischiosità dei compromessi (anche quelli di piccolo cabotaggio). Il suo obiettivo primario rimane l’autoriproduzione di se stessa. Parlare di occhio prospettico e di sviluppo è persino inutile. L’arretratezza della pubblica amministrazione, dei servizi, della sanità, d’altronde, ne è tragica testimonianza.

La responsabilità storica che ricade sulla classe politica regionale è quella, oltre di aver fallito nell’autogoverno della Regione, possibilità che gli dava la legge sull’autonomia del ’48, di aver creato un ente regionale elefantiaco, clientelare, superprivilegiato. Si aggiunga l’incapacità di realizzare una seria pianificazione regionale, che ponesse i presupposti dell’inserimento dell’economia siciliana in uno scenario nazionale ed internazionale, facendo soprattutto leva sulla sua posizione geografica. Ma quello che è ancor più grave, è di aver permesso l’esodo delle sue energie migliori. Di fronte a questa arroganza del potere, purtroppo, è mancata una presa di coscienza popolare.    

La Sicilia rimane, ancora oggi, ostaggio di un ceto politico di così basso livello, persino nelle sue astuzie clientalari, che le parole dei suoi rappresentati non possono che rimanere parole e soltanto parole.

Filippo Falcone

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