I moti del 1820. L’assalto a Caltanissetta del principe Galletti. Caltanissetta risarcita dalla Corona dei Borbone grazie all’abilità politica del barone Benintende
Filippo Benintende nasce a Caltanissetta il 24 febbraio 1778. E’ primogenito del barone Giuseppe e di Mattia Torregrossa. Compie i suoi studi presso il Seminario di Girgenti. Qui rivela doti di attento studioso. Redige scritti su argomenti giuridici e umanistici.
Intraprende gli studi universitari a Palermo. Si laurea in legge. Nel 1812, caduto il feudalesimo con la costituzione anglo-siciliana che prevede una Camera dei Comuni, viene eletto insieme a Mauro Tumminelli rappresentante per Caltanissetta.
L’opera politica dei due risulterà fondamentale per la elezione di Caltanissetta a città Capo Distretto di una delle sette Valli e per la istituzione del Tribunale Civile e della Gran Corte Criminale. E’ grazie all’opera di Benintende che Caltanissetta diviene sede di Intendenza per gli affari amministrativi (Prefettura ante litteram) e sede del Comando Militare con potere su tutti comuni della Valle.
Le doti e le competenze di Filippo Benintende non passano inosservate. L’acume politico, la capacità di mediazione e la competenza giuridica richiamano l’attenzione del Governo di Napoli che lo nomina nel 1819 Magistrato della Gran Corte Criminale di Caltanissetta.
La sua carriera sembra spianata verso i più alti ranghi della Amministrazione statale ma a sorprenderlo sono i moti del 1820 che vedono Caltanissetta luogo di scontro fra le milizie palermitane capitanate – nell’interno della Sicilia – dal principe Galletti di Fiumesalato (San Cataldo).
L’abolizione della Costituzione del 1812 fornisce la giustificazione per una insurrezione che scoppia prima a Napoli e poi a Palermo. Quest’ultima, spogliata dal ruolo di capitale del Regno di Sicilia, non gradisce la ulteriore declassamento a Città Capovalle alla pari delle altre sei città Capodistretto. Dalla insurrezione spera di recuperare lo status perduto.
Vengono distrutti gli uffici pubblici borbonici e in sostituzione del Luogotenente Generale del Governo napolitano, Diego Naselli, viene insediata una Giunta Provvisoria presieduta dal Principe di Villafranca. L’ex feudatario di Fiumesalato, adesso San Cataldo, non gradendo l’aggregazione del suo feudo a Caltanissetta, si fa nominare rappresentante degli insorti palermitani per il centro della Sicilia. Intima quindi alle Autorità della città Capovalle di aderire alla rivoluzione.
Benintende e Tumminelli, artefici della erezione di Caltanissetta a città Capodistretto, per ovvie ragioni di coerenza e fedeltà alla Corona, rifiutano l’ingiunzione. Le ire del principe di Fiumesalato diventano funeste, anche grazie alla adesione ai moti di Girgenti a cui il suo feudo era aggregato.
A Palermo si è consapevoli dell’importanza strategica di Caltanissetta e che senza il suo appoggio la rivoluzione non può avere successo nella vasta area centrale di cui è capoluogo. La Giunta rivoluzionaria ordina quindi al Galletti di provvedere.
I due rappresentanti caltanissettesi assicurano che le truppe regie, in marcia verso l’interno, sapranno difendere la città. Le Autorità locali approntano comunque una difesa della città con squadre di regolari e volontari che issano il vessillo di San Michele. La difesa si rivela inadeguata e le milizie del Galletti l’11 agosto del 1820 occupano prima le alture di Babbaurra, per fare ingresso il giorno appresso in città, devastandola.
Le milizie del Galletti, nei primi giorni di settembre, appostano quattro potenti cannoni per distruggere completamente dall’alto la città. Il lavorio politico di Benintende (e di Tumminelli) si rivelerà fondamentale per la sorte di Caltanissetta. E’ infatti da Catania, seguendo una strategia militare suggerita anche dai deputati caltanissettesi, che le truppe regie – piuttosto che puntare direttamente su Palermo – decidono di riconquistare il territorio in mano agli insorti procedendo verso l’interno.
Quattromila uomini al comando del colonello Costa marciano verso il Dittaino per raggiungere Pietraperzia. Fanno campo presso il feudo Fortolesi (oggi vi sorge la stazione di Imera). Vengono raggiunti dalle forze superstiti di Caltanissetta che inducono Costa a puntare sulla città.
Il primo mattino del 7 settembre vede una colonna di tremila uomini, tra regolari e miliziani, marciare sulle trazzere del Juncio e dello Stretto. Costa ordina ad alcune compagnie di “cacciatori” di simulare un attacco sulle colline di Sant’Anna, al fine di allontanare le forze del Galletti dal monte San Giuliano.
Lo stratagemma funziona. Le truppe in avanscoperta raggiungono le contrade di Cacciagalline e del Roveto attirando il grosso delle truppe degli insorti. I regolari al comando del colonello Costa attaccano nella tarda mattinata dello stesso giorno i fianchi del monte San Giuliano, cogliendo di sorpresa i fucilieri a presidio dei cannoni destinati a distruggere Caltanissetta.
Alle tredici del 7 settembre le truppe del Galletti sono allo sbando, fuggendo verso i feudi del loro comandante. Costa, in segno di vittoria e di sicurezza per la popolazione, fa portare sulla piazza Ferdinandea i quattro cannoni e le due bandiere da guerra catturate agli insorti.
Filippo Benintende, rientrato in città, resosi conto del disastro patito dalla popolazione caltanissettese, fa uso delle sue relazioni e del suo potere di fatto per far riapparire il frumento nascosto. Dà mandato di distribuire grano e viveri alle truppe e alla popolazione. Dal palazzo di città istituisce una Deputazione di Pubblica Sicurezza con il compito di ripristinare le condutture dell’acqua per scongiurare epidemie. Fa seppellire i morti. Coordina, con il colonello Costa, la presa di San Cataldo.
L’8 di settembre un contingente di tremila uomini fra regolari e combattenti civili sgominano i ribelli del Galletti, oramai introvabile, recuperando il Gonfalone della Chiesa madre e riprendendo gran parte dei beni pubblici razziati dagli insorti.
Benintende, da abile politico, conosce però l’indole di Galletti. Organizza una efficiente rete di informatori, venendo a sapere che il principe ribelle attende la ripresa della marcia di Costa verso Palermo per riproporre un attacco alla città Capovalle. Convince quindi Costa a lasciare alcuni suoi ufficiali a Caltanissetta. Questi riorganizzano le truppe regie e la mattina del 23 settembre del 1820 muovono verso San Cataldo mettendo in fuga le ultime milizie del Galletti.
Benintende tuttavia sa che la sola forza militare, per di più momentanea, non può bastare. Continua nella sua opera e nella sua visione politica, consapevole della necessità di rinsaldare i rapporti di Caltanissetta con il territorio della sua Valle. Fa nominare quindi Giovanni Daniele, sottoprefetto di Piazza Armerina, Prefetto di Caltanissetta.
Questi si rivelerà energico e risoluto, ordinando “per motivi di ordine pubblico” (quindi come necessità amministrativa e non militare) una terza e una quarta spedizione contro San Cataldo. Il 7 e il 14 ottobre le truppe, ora come forza di polizia, agli ordini del comandante De Marteau occupano San Cataldo. Intanto il Colonello Costa informa il Benintende, di avere raggiunto Caccamo e di essere in procinto di entrare a Palermo.
Non manca di assicurarsi i buoni uffici dei nuovi rappresentanti della ripristinata amministrazione regia, intessendo fitti rapporti con il Duca di San Martino, adesso Intendente (Prefetto) di Catania. Le relazioni del Benintende con le alte Autorità militari, come il Tenente Generale Marchese Nunziante e il Capitano Bartolini, risulteranno utili a convincere i notabili sancataldesi ad abbandonare la “causa persa” del Galletti, culminando con la loro richiesta diretta all’Intendente (piazzese) di Caltanissetta e alla Deputazione di Sicurezza Pubblica di ricevere una delegazione in rappresentanza di tutte le classi di San Cataldo.
I delegati sancataldesi consegnano un documento con cui dichiarano di venire “a rassegnare i voti della cittadinanza di S. Cataldo a riaffermare la sua fede alla monarchia e alle autorità costituite, ad esporre la difficile ed equivoca posizione in cui da due mesi si era trovata… con proteste di stima e di sottomissione al Governo… mandata a rinsaldare i vincoli di affetto e di buon vicinato col capoluogo di Caltanissetta”.
La sottile opera politica di Filippo Benintende si conferma nella risposta che, da Presidente della Deputazione, rivolge alla delegazione sancataldese, dove afferma:
“La città di Caltanissetta, dopo aver sofferto quel generale assassinio nello scorso mese di agosto, si sarebbe astenuta a disturbare i pacifici sancataldesi, se i briganti non si fossero rifugiati nelle vostre mura…Ma giacchè mi assicurate ora di averli cacciati e ci avete promesso che non li farete più rientrare… vi promettiamo che non verremo più a inquietarvi. Voi sapete che Palermo è rientrata nell’ordine, onde tutta la Sicilia deve stare in pace”.
E’ un testo che fa comprendere la lungimiranza del Benintende che, pur affermando di avere vinto sul Galletti, non intende prolungare rancori, consapevole della necessità della nuova Valle di rafforzarsi nel suo territorio, sino a pochi anni prima asservito a realtà feudali di più lunga storia.
Le sue doti a Napoli sono tenute in costante attenzione e forte considerazione. Nel 1824, a soli trentasei anni, il Governo di Ferdinando IV lo nomina membro della Consulta di Stato a Napoli, della quale in seguito assumerà le funzioni di Presidente. E’ sempre grazie alla sua personalità e alla sua rete di relazioni politiche che riesce far stanziare su iniziativa dell’erede al trono di Napoli, principe Francesco I, un capitolo di bilancio di 223mila onze e 542 tarì per le riparazioni sofferte dalla città a seguito dell’assalto del Galletti.
Dopo Francesco I, asceso al trono re Ferdinando II, Filippo Benintende viene investito delle funzioni di Gran Consultore per la ispezione delle amministrazioni delle Valli di Messina, Catania e Siracusa, con i più ampi poteri per “verificare i bilanci, le finanze, il commercio, l’industria, l’agricoltura, il funzionamento della giustizia, con facoltà di proporre modificazioni e riforme”.
Come è possibile constatare l’investitura comprende poteri quasi sostitutivi della amministrazione reale, segno della grande stima e fiducia di cui il Benintende gode da parte della Corona. E’ il 1832, l’anno della epidemia di colera in Sicilia. Le popolazioni sopraffatte dalla malattia accedono alle voci che il morbo sia stato favorito dalle Autorità. Nascono tumulti e sommosse. Benintende – per il suo Ufficio – si trova a Catania. Per lui i rivoltosi vogliono riservare la ghigliottina. Lo salva l’intervento delle truppe del generale Del Carretto, che verrà però ricordato come un sanguinario risolutore dei disordini.
La fibra di Benintende ne soffre. Comprende che non è più in grado di fronteggiare gli eventi (risorgimentali) che si profilano all’orizzonte. Accetta la Vicepresidenza della Consulta di Napoli che gli viene conferita nel maggio del 1847. Con lungimiranza si tiene lontano dalla rivoluzione, che aveva intravisto, del 1848.
Il sovrano non trascura l’accortezza del Benintende e nel 1853, con la messa a riposo, gli riconosce oltre alla pensione di giustizia un vitalizio a titolo di riconoscenza “per i distinti servigi resi al Reale Trono”.
L’età e la salute non gli consentono più di condurre impegni pubblici. Si dedica quindi alla costruzione di uno dei suoi palazzi oggi più conosciuti, realizzato sull’odierno corso Vittorio Emanuele su progetto e direzione dell’architetto Giuseppe Di Bartolo di Terranova (Gela).
Invero, più di costruzione si tratta di una riqualificazione della proprietà edilizia preesistente, sul cui fronte verrà realizzata la facciata neoclassica con il piano terra e l’ammezzato inclusi in un basamento in pietra da taglio locale (conci di Sabucina) ad effetto bugnato.
La vita di Filippo Benintende si conclude il 26 luglio del 1857. I funerali solenni saranno officiati nella Chiesa Cattedrale dal futuro vescovo di Catania, poi Cardinale, padre Giuseppe Maria Dusmet. La sua orazione funebre contenuta in un elogio scritto verrà bruciata, come gli altri scritti di Filippo Benintende, all’indomani delle esequie alla presenza del figlio ed erede Giovanni Benintende, a cui aveva fatto promettere – in punto di morte – il compimento di questa sua precisa volontà.
