Una giovane donna caltanissettese. Religiosa, madre, eroina della Resistenza. Per molto tempo sconosciuta.
“Italiani, un popolo di eroi, santi, poeti e navigatori”. Questa espressione, a volte citata in modo ironico, fa parte di un discorso tenuto da Mussolini il 2 ottobre 1935, in risposta alle sanzioni inflitte all’Italia per la politica del suo governo.
A Caltanissetta – a dispetto di chi ebbe a pronunciarla – una donna si dimostrò eroina nel contrastare le conseguenze nefaste del regime. Giuseppina Panzica è stata un esempio di quelle italiane e italiani, il più delle volte persone semplici, che ascoltarono il richiamo della coscienza e il comandamento cristiano della carità.
Giuseppina Giovanna Panzica nasce a Caltanissetta il 1° agosto del 1905. Madre di quattro figli e moglie del finanziere Salvatore Luca. Religiosa, attenta ai bisogni del prossimo, dedita alla famiglia, nel 1929 segue il marito in congedo dalla Guardia di Finanza, in cerca di una vita migliore. Lascia Caltanissetta per raggiungere Legnano, per poi stabilirsi a Ponte Chiasso, al confine con la Svizzera.
Giuseppina non sa in quel momento cosa avrebbe trovato e soprattutto quale sarebbe stato il corso della sua vita. Non immagina che darà il suo aiuto fondamentale per salvare la vita di moltissime persone innocenti. Questa caltanissettese diverrà protagonista di una storia che potrebbe essere la trama di un film di spionaggio ma che invece è una storia vera.
In quel paesino in provincia di Como i coniugi Luca vanno ad abitare in una casetta con giardino, proprio a ridosso del confine italo-svizzero. Il luogo, il paesaggio, il clima sconvolgono la vita della giovane Giuseppina, lontana dal sole e dal mare della sua isola. Il suo animo di donna siciliana, educata per la vita e la custodia quasi sacra della famiglia la aiuta e si rivela indispensabile quando l’Italia entra in guerra nel 1940.
Due anni prima Vittorio Emanuele III ha promulgato le sciagurate leggi razziali volute da Mussolini. La vita per molti italiani di origine o religione ebraica si trasforma in giorni di paura e terrore. Sconforto e tristezza pervadono la vita di molte famiglie. Si spera che il proprio nome non finisca nella lista dei ricercati. Molti iniziano a cercare una via di fuga o un nascondiglio in grado di procurare la salvezza, in attesa che la guerra finisca.
Arriva l’8 settembre 1943. Il re fugge da Roma. I vertici politici e militari contigui al regime lasciano gli italiani senza guida. L’Italia è divisa in due. A sud avanzano gli Alleati dopo lo sbarco in Sicilia del 10 luglio. A nord si vive una realtà surreale, con “terre di nessuno” e quel che resta della Repubblica Sociale Italiana e delle milizie mussoliniane, ancora fedeli al Terzo Reich.
Sono giorni di caos e di tensioni. Le truppe naziste battono in ritirata, lasciando dietro di loro stragi, razzie, soprusi e rastrellamenti. Chi non si unisce a loro viene imprigionato e condotto nei campi di lavoro. A Roma avviene una delle più grandi deportazioni di ebrei, oltre all’internamento di seicentocinquantamila militari italiani che si rifiutano di continuare la guerra a fianco di Mussolini e Hitler.
Giuseppina, con il marito e i suoi quattro figli, tre maschi ed una femmina, non rimane a guardare. Di animo religioso, trova il modo di esprimere tutta la sua sensibilità e solidarietà aiutando il prossimo.
Entra nella Resistenza. Si iscrive con il marito al “Gruppo Fra.Ma”, acronimo dei cognomi di due attivisti partigiani, Ezio Franceschini e Concetto Marchesi. Da qui in poi collabora con altri due eroi, il finanziere Gavino Tolis e il maresciallo Paolo Boetti, creando una organizzazione per nascondere e salvare centinaia di profughi ebrei e perseguitati politici.
Già nei giorni successivi alla caduta del fascismo del 25 luglio 1943 il marito aveva partecipato all’abbattimento degli emblemi del regime sulla Casa del Lavoro di via Bellinzona. Sono giorni di disordini e confusione. La Resistenza si organizza con l’aiuto dell’OSS, i servizi d’intelligence americani, la futura Cia.
L’orto di Giuseppina in via Vincenzo Vela, ultima propaggine di territorio italiano prima della Svizzera, diventa un collegamento per la salvezza di centinaia di ebrei. Giuseppina ora è l’angelo di Ponte Chiasso. Riesce a creare una via di scampo, producendo uno squarcio nel reticolato del suo giardino, una vera e propria rete di confine italo-svizzero. La utilizza anche come punto di smistamento per pacchi e lettere che devono “uscire dall’Italia”, senza dare troppo nell’occhio. Sono ordini e importanti documenti destinati ai partigiani.
Bisogna però rimanere nell’anonimato, fare attenzione, tra la paura e l’attesa. Una scelta coraggiosa quella di Giuseppina e del marito Salvatore, fatta nella consapevolezza dei rischi a cui va incontro tutta la famiglia. La sorte cambia nel gennaio del 1944. Il marito e i due figli maschi di quattordici e quindici anni, sono costretti a raggiungere la Germania come lavoratori “volontari”, presso il campo di lavori forzati di Osnabück.
Giuseppina rimane a Ponte Chiasso con i due figli più piccoli. Continua ad aiutare e salvare centinaia di innocenti. Una segnalazione anonima la fa però scoprire dal controspionaggio tedesco. Un contrabbandiere della zona o qualche ex collega finanziere del marito, rimasto fedele alla Repubblica Sociale Italiana.
Viene arrestata e affidata prima alla Milizia confinaria fascista e poi consegnata alla Guardia Nazionale della Repubblica di Salò. Giuseppina è portata nel carcere comasco di San Donnino. In seguito in quello di San Vittore a Milano. Qui viene rinchiusa nel, tristemente noto, quinto raggio. E’ costretta a subire angherie e umiliazioni. Ma non è ancora il peggio.
Da lì andrà a vivere la durissima esperienza del lager femminile di Ravensbrűck, destinazione di decine di migliaia di donne deportate da tutta Europa, in prevalenza per motivi politici, coatte in condizioni disumane, dove subisce altre violenze e torture. In pochi si salveranno. Giuseppina, grazie alla forza della fede mantiene la tenacia e la speranza, riuscendo a sopportare le atrocità inflitte.
Incontra un’altra detenuta, una kapò slovena, che la protegge negli ultimi momenti convulsi del campo, tra le decimazioni naziste e l’arrivo dei liberatori russi. Sarà una delle poche donne a sopravvivere.
Nell’ottobre del 1945, dopo un lungo periodo passato in vari ospedali militari, Giuseppina riesce finalmente a ricongiungersi con la famiglia. Racconterà di lei la figlia Rosaria. “Ancora ricordo il momento in cui rividi mia madre, dopo due anni, provata nel corpo e nello spirito, ma viva. Un’emozione fortissima mi assalì e non riuscii a parlare per parecchi minuti, tanta era la commozione nell’averla ritrovata”
Forse il bene che Giuseppina aveva donato agli altri le era tornato indietro, facendole salva la vita. Il suo pensiero ritornerà spesso a quel giardino di via Vela, in cui riteneva di aver trascorso i migliori anni della sua vita. Morirà a Como il 15 febbraio del 1976, all’età di 70 anni, per una emorragia cerebrale.
Giuseppina negli anni del dopoguerra non avrà riconoscimento alcuno, né ci si curerà di parlare della sua vicenda. Solo il 14 marzo del 2018, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella le conferirà, alla memoria, una Medaglia d’oro al Merito civile, per essere “ancora oggi splendido esempio di straordinario coraggio e di incrollabile fede nel valore della libertà”
Anche Caltanissetta, sua città natale, il 27 Gennaio del 2022, renderà omaggio alla sua memoria, rimasta per troppo tempo nell’oblio, apponendo una targa commemorativa sul muro della casa in cui era nata ed intitolandole la strada, precedentemente denominata via Piazza Armerina, in cui la palazzina è ubicata.



