Personaggi della nostra storia: i Morillo di Trabonella

Lillo Ariosto
Lillo Ariosto 421 Views
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Se qualcuno – dagli anni del dopoguerra ai primi anni Settanta del Novecento – si fosse trovato,  intorno alle 4.30 del mattino,  sulla piazza   Garibaldi   di   Caltanissetta,   avrebbe   incontrato   una moltitudine   di “iurnatara” (lavoratori   giornalieri) in   attesa   di essere reclutati come braccianti, muratori, scaricatori “a giornata”.

Più   in   là,   davanti   l’ingresso   della   locale   Camera   di   Commercio, avrebbe notato plotoncini più ordinati di lavoratori, in attesa del bus che li avrebbero portati sul luogo di lavoro, nei pressi delle colline che allacciano il fiume Salso o Imera meridionale, dove le torri-ascensore   delle   miniere   di   Giumentaro   e   di   Trabonella (“Trabuneddra”   in   idioma   nisseno) li   avrebbero   introdotti   nelle viscere   della   terra.  

Quest’ultima   è   stata   una   delle   miniere   più ricche del bacino solfifero di Caltanissetta. La solfara era parte del feudo   Trabonella,   sin   dai   primi   anni   del   ‘700   di   dominio dell’arciprete Agostino Riva, preposto alla chiesa madre di Santa Maria   la   Nova,   futura   cattedrale   di  quella   che   sarà   nel  1844   la diocesi di Caltanissetta.

L’autorevole canonico risulterà tutore di Ferdinando Morillo, un giovane i cui natali si danno in quel di Naro nel   1711.   Il   giovane   –   capostipite   di   una   delle   più   importanti famiglie nissene – si vedrà donare nel 1747 dall’arciprete nisseno il possedimento   di   Trabonella,   che   gli   permetterà   di   fregiarsi   del titolo di “barone”.

Dal 1825 il feudo sarà strutturato a giacimento minerario. L’iniziale ricchezza cerealicola del latifondo consentirà a Ferdinando Morillo, che conduceva già l’attività di gabelloto, di diventare in breve tempo una delle personalità più ricche e più in vista della città e dei suoi dintorni, tanto  da diventare nel 1754 Soprintendente  al  Pubblico   Peculio,   una  sorta   di  assessore  delle finanze locale.

Ferdinando è giovane, pronto, intelligente, svelto. Riesce in breve tempo a rivestire prestigiosi incarichi pubblici che gli assicurano potere e protezione ma soprattutto la possibilità di dare protezione. Non ha timore quindi di sottoscrivere, con altri esponenti   della   élite   nissena,   l’istanza   diretta   a   re   Carlo   III   di reintegrazione  di  Caltanissetta   al  demanio   regio,   sottraendola   al dominio feudale dei Moncada.

Tale richiesta non è per Ferdinando Morillo   disinteressata   poiché   è   di   aiuto   alla   vertenza   giudiziaria che lo vede protagonista per conseguire il possesso esclusivo del ricco feudo di Trabonella reclamato dai Moncada. Nel 1734 sposa Antonia   Guccione,   dalla   quale   avrà   quattro   figli,   Giacomo, Benedetto,  Giovanni e Mario e due figlie Rosalia e Calogera.

La genìa si mostra all’altezza del capostipite. Il primogenito, Giacomo, nel 1771 assume la carica di giurato di Caltanissetta, incarico che gli   sarà   riconfermato   nel   1778.   Dal   1773   Giovanni,   che   aveva studiato avvocatura, viene nominato giudice civile mentre nel 1778 è investito della Giudicatura Criminale. Due anni dopo è giudice di appellazione.  

La   famiglia   di   Ferdinando   Morillo   gode   di   ampia fama,   prestigio   e   soprattutto   potere.   Doti   che   naturalmente   non sono  da  tutti  gradite.  Grazie  alla  difesa  del principe  Moncada di Paternò, stilata   dall’avvocato   D’Urso,   è   possibile   ricavare   una   immagine meno   stimabile   della   famiglia   Morillo.  

Il   terzo   figlio,   Benedetto, conduce un controverso affitto del feudo di Garistoppa, anch’esso appartenente   al   Moncada,   dove   –   si   dice   –   trovino   rifugio   alcuni malviventi autori di svariati delitti nel feudo di Santa Caterina. Lo stesso don Ferdinando ha inconfessata nomea di manutengolo della famosa   banda   del   Testalonga.   Due   di   questi   associati   –   scriverà D’Urso   –   sarebbero   di   casa   nel   feudo   di Trabunella, dove accumulerebbero i proventi   dei   furti   e rapine commessi nelle campagne.   

«Una famiglia di facinorosi», la definisce l’avvocato dei Moncada. Affermazione sicuramente di parte che, tuttavia, rivela i contorni   di   una  «una   società   violenta,   dove   primitive   e   violente sono le forme della lotta di classe e di fazione, ancor più primitivo e violento l’esercizio del potere» (Mulé Bertolo, Caltanissetta).

Altro alto esponente della famiglia dei Morillo (ora) di Trabonella,  sarà Francesco. Anch’egli nasce a Naro il 13 giugno del 1816. A dispetto  dei  suoi  predecessori sembra  immune dalla controversa nomea.   Appare   dedito   agli   studi,   alle   letture,   alle   nuove   idee. Apprende il francese, il tedesco, lo spagnolo, oltre a conoscere il latino   e   il   greco.   Si   dedica   allo   studio   delle   scienze   politiche   e diplomatiche.   Si   mostra   come   l’uomo   nuovo   di   cui   Caltanissetta sembra   avere   bisogno.  

Fiuta   il   cambiamento cui è  destinata   la Sicilia e l’Italia e che in quel momento si mostra alimentato dal nuovo pontificato di Pio IX. A tutti sembra alimentare le istanze di libertà   e   indipendenza   dai  “regnanti   stranieri”.  

Nel   1848,   il   28 gennaio,   Francesco   Morillo   di   Trabonella   raccoglie   l’invito   di Ruggiero Settimo di insurrezione contro i Borboni. A Caltanissetta viene costituito  il Comitato  Centrale della Valle. Ne viene eletto presidente. Gli viene conferito anche l’incarico di Capitano della 1° Battaglione della Guardia Nazionale e Vice Presidente del Comitato della Guerra e della Marina. In tale veste appronta una compagnia di soldati pronta per cimentarsi sul campo di battaglia di Adernò.

La   rivoluzione   a   fine   1848   viene   soffocata   e   Francesco   deve rifugiarsi nei propri possedimenti in attesa di nuovi eventi. La sua fratellanza massonica gli permette di tessere rapporti con Cavour, La Farina, Cordova. Grazie alle sue finanze raccoglie, sotto forma di lavoratori delle sue aziende, adepti e clientes di ogni sorta. Sa che gli saranno utili nel nuovo mondo che   –   da   uomo nuovo e intelligente – sente ineludibile.

Il 4 aprile del 1860 la campana della Gancia   dà   il   segnale   della   nuova (risolutiva) insurrezione.   L’11 maggio dello stesso anno Garibaldi sbarca a Marsala. Francesco Morillo di Trabonella non si fa trovare impreparato. Ha ricevuto notizie   della   marcia   che   le   truppe   borboniche,   al   comando   del generale Afan de Rivera, dovranno muovere verso Pietraperzia per sbarrare   il   passo  alle   milizie  garibaldine.  

Approfitta   quindi  della momentanea   assenza   di   presidio   militare   in   città   per   farsi proclamare   Presidente del Comitato Provinciale, affermando  di volere assicurare “il  mantenimento dell’ordine,   l’equità, la prudenza e la giustizia”. Abilmente non dichiara subito in nome di quale partito (regio o rivoluzionario) eserciti tali poteri. Constatati gli   eventi,   il   26   maggio,   emana   il   proclama   con   cui disvela di reggere   l’Ufficio   affidatogli “in   nome   di   Vittorio   Emanuele”.  

Da avveduto politico non dimentica che il nuovo ordine non può fare a meno del   potere   moderatore   della   Chiesa e, in nome della “conservazione della quiete   pubblica”, ricorre al Vescovo, Monsignor   Giovanni Guttadauro Reggio, Principe di Reburdone, assicurandone sicurezza e soprattutto approntando le “necessarie” risorse   in   favore “dei   miseri”,   in   maniera   che “acciò   si   fosse cooperato ad assicurare sempre più il mantenimento dell’ordine e della conservazione del rispetto dovuto alla legge a alla religione”.

Queste “accortezze” gli   varranno   l’approvazione   e   la   lode   del Dittatore   Giuseppe   Garibaldi   che   lo   nomina   Governatore provvisorio e primo Prefetto della Provincia in procinto di passare sotto il governo dei Savoia. Lo storico del tempo Mulè Bertolo ne tesse elogio descrivendone la capacità di mettere a tacere “lotte arroganti,   quando   pettegole,   che   gli   venivano   da   coloro   i   quali, sotto   il   titolo   di   liberali,   si   arrabattavano   per   insignorirsi   delle cariche,   degli   impieghi   e   principalmente   del   denaro   pubblico   e privato”   

Il   28   giugno   dello   stesso   anno   (1860)   fa   esprimere   al popolo nisseno “il pensiero unanime di volere l’Unità Italiana, Italia a   Vittorio   Emanuele”, precorrendo   –   da   grande   anticipatore   –   la stagione dei plebisciti che si terranno nell’ottobre successivo.

E’ tuttavia prudente e acuto. A differenza di altri suoi contemporanei nisseni   rifiuta   cariche   del   nuovo   regno,   preferendo   agire sottotraccia, finanziando questo o quel partito nell’ancora acerbo gioco parlamentare della nuova Italia. Evita gli infortuni, sempre possibili in questa età di trapasso tra il vecchio e il nuovo. E’ pur sempre un uomo di affari. Le sue sostanze sono comunque sempre utili alla nuova dinastia al potere.

E’ così che Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, il 10 luglio del 1861 lo decora della “Croce   di Uffiziale   dell’Ordine   dei   SS.Maurizio   e   Lazzaro,”   entrando   come “Cavaliere   di   Grazia”.   Rimane   al   vertice   della   nuova   Provincia, anche   se   alla   fine   del   1861   si   ventila   un   suo   trasferimento, impiegando la ragione di evitare che i presidenti delle provincie “appartenessero alla stesse”.

A tale annuncio il Clero e il Capitolo della   Cattedrale   con   indirizzo   del   7   settembre   1861, “facendosi interprete dei sentimenti della popolazione e presentando non un plebiscito   ma   l’unanime   espressione   di   un   desiderio   onesto”, ricorrevano al Prodittatore per “conservare il Barone Morillo nella carica   di   Governatore   di   questa   Provincia”.

Il tentativo è per lui bastevole. Oramai conosce i nuovi meccanismi del potere nel nuovo regno.   E’   consapevole   che   dovrà   lasciare   l’incarico   ma   da   abile tessitore fa conoscere che è necessaria una contropartita. E’ così che con la lettera del 17 novembre del 1861 con cui il Ministro dell’Interno,   esprimendogli   gli   elogi   per   avere   servito   la   causa italiana, accetta le (suggerite) dimissioni, nel contempo comunica che “Sua Maestà, a fine di dare a Lei una prova non dubbia della sua gratitudine e, al fine di metterla in grado di continuare i servizi alla   Patria,   ha   elevata   la   S.S.   all’alta   dignità   di   Senatore   del Regno.”  

Inaugurando   una   tradizione   che   negli   anni   non   verrà   a mancare in città, il nuovo Senatore  “non lasciava di adoperare la sua influenza e popolarità per appoggiare il cav. Domenico Marco, nuovo venuto a reggere i destini della Provincia di Caltanissetta, nella qualità di Prefetto.”       

Rientrato a vita privata, non gli mancano incarichi  e onorificenze.  E’  chiamato  a membro della Società di Acclimatazione e di Agricoltura in Sicilia. Nel marzo del 1862 è Presidente Onorario dell’Istituto fondato a Parigi per l’abolizione della tratta e della schiavitù in Africa. Non è naturalmente esente da maldicenze e pettegolezzi, tipiche di chi è stato uomo di potere e destinato al momento calante del prestigio e del credito. Cosa che sembra avvenire a inizio del 1876.           

“Vittima del suo gran cuore o   della   massima   buona   fede,   i   gravi   dispiaceri   lo   traevano   al sepolcro” all’età di 61 anni, addì 30 giugno 1877. I suoi funerali saranno “quelli di un Re. Il corteo imponente e commovente. Tutti, senza   eccezione,   piangevano   la   fine   di   quell’uomo   venerando, vittima del suo grande galantomismo, del suo grande cuore, della sua immensa bontà”.    

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(Bibliografia: “Personaggi illustri di Caltanissetta”, Giovanni Mulè Bertolo)

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