Reportage del lunedì. “Lettera ad un ponte mai nato”.

Lillo Ariosto
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No, no, no…. e poi no.

“Ma perché?…. Perché no.”

(Enzo Iannacci – “Vengo anch’io. No tu no”. – ed.Ricordi, Mi, dicembre 1967”)

Grazie al cielo abbiamo raggiunto un’età che al tempo dei nostri nonni appariva come l’anticamera del riposo eterno. Nonostante qualche pericolo corso e molte peripezie affrontate siamo ancora qui con attese, progetti, desideri, mete da raggiungere.

Solo di una cosa siamo certi.

Non vedremo mai il ponte sullo stretto di Messina.

Non lo vedremo, oltre che per le naturali ragioni anagrafiche, per la costante avversione che questa opera ha da sempre patito, sin da quando a qualcuno è venuto in mente di rendere la Sicilia parte del continente europeo.

Si. Preferiamo pensare la Sicilia come parte dell’Europa, piuttosto che considerarla presumibilmente unita alla penisola che Klemens Von Metternich nel 1847 definiva (chissà se a torto) “una espressione geografica”.

Il ponte noi – comunque – lo abbiamo visto già, in tenera età e naturalmente in un plastico (oggi si chiama diorama), quando papà – in pieno boom dei mitici anni ’60 (del Novecento) – ci portò, crediamo fosse il 1964, nell’atrio di Palazzo del Carmine, sede del municipio nisseno, per vedere il modellino del ponte di Messina di cui si riteneva l’imminente costruzione.

Erano anni di percepito progresso tumultuoso e in apparenza inarrestabile e soprattutto incontestabile. Era stata da poco completata l’autostrada del Sole che aveva unito l’Italia da nord a sud (il sud si fermava però già a Napoli) e quindi sorgeva naturale prolungare sino alla Sicilia quella grande via di comunicazione. A tal fine si imponeva un collegamento veloce e alternativo ai lenti e fumanti “ferribotte” (ferry boat), come venivano all’epoca chiamati i traghetti dal divinatorio nome “Caronte”.

Di quel ponte si è sempre parlato ricorrentemente, in tempi diversi, dagli anni del progresso senza se e senza ma, ai decenni di crisi economica, ai più recenti segnati da perplessità e riflessione, sino ai giorni nostri di aperta contestazione dell’opera.

Di qualche giorno addietro la massivamente pubblicizzata manifestazione “No ponte” tenuta a Messina.

Oggi in tempi di “No vax”, “No Tav”, “No ponte”, “No tutto” siamo sempre più convinti che – anche in ragione di contingenti avversioni politiche – non se ne farà mai niente.

Oltre alle attuali mancate asseverazioni contabili (magari rivestite da legittime argomentazioni tecnico-giuridiche) riteniamo che la preponderante visione negativa propagandata e oramai assunta stabilmente dall’opinione pubblica nei confronti di ogni “grande opera” che proietti verso il futuro, in nome di una generica visione ambientalista e protezionistica, non lasci speranza né al ponte, né ad altra grande infrastruttura.

Non siamo ingegneri e quindi non azzardiamo pareri di fattibilità sull’opera ma con la tecnologia oggi raggiunta e con i controlli di funzionamento, la preparazione ad affrontare potenziali criticità, anche con l’ausilio dell’intelligenza artificiale, riteniamo siano superabili tutte le riserve tecniche e di gestione che vengono pedissequamente sollevate sulla realizzazione dell’opera.

Tralasciando le innegabili “ricadute” economiche, infrastrutturali, occupazionali per le due regioni interessate (fra le più arretrate d’Italia), quello che a noi appare insormontabile è la imperante cultura del “non fare” che pare avere investito il nostro paese su qualsiasi cosa.

Don Fabrizio Salina, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, avvisava lo “spaesato” Chevalley che “In Sicilia non importa far male o far bene; il peccato che noi Siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”. Forse con la venuta di quel “barbuto” di Garibaldi questa rappresentazione si è estesa al resto di quello che viene chiamato Paese.

Il fenomeno per cui “oggi si dice no a tutto” è probabilmente dovuto a una percezione legata a diversi fattori psicologici e sociali. Deriva principalmente da una maggiore – ma tutta particolare – consapevolezza dell’importanza dei propri bisogni, mal favorita da un generale senso di incertezza e negatività diffuso (anzi infuso) nella società contemporanea. 

Forse per alcuni dire “No” è spesso visto come un passo fondamentale per il benessere personale e un obbligo necessario a far rispettare le proprie esigenze e la propria identità, sfuggendo ad ogni logica o meglio idea di benessere diffuso e comune.

Non ci azzardiamo ad usare il – desueto e detestato – termine “bene nazionale”.

La resistenza al cambiamento a noi appare come un sintomo di pigrizia, se non paura di perdere il controllo di quello che oggi appare certo e sicuro. Ma che – per dinamiche internazionali – certo e sicuro non è. Né può più esserlo. Come comprovato dai conflitti territoriali in corso.

In un mondo che cambia rapidamente, “dire no” può essere solo un maldestro metodo per ritenere di riuscire a mantenere un senso di stabilità e sicurezza “conservativa”.

I rischi psico-sociali del mondo contemporaneo, esacerbati da fattori come l’uso intenso dei social media, hanno portato a un innegabile aumento dell’ansia e della depressione non solo individuale ma anche collettiva.

Proprio come affermava Emile Durkeim (che fortuna avere inserito, negli anni ’70, “sociologia” nel nostro piano di studi universitario) la società non è altro che un “corpus unico”, un sistema integrato, un organismo vivente che funziona quando tutti gli organi – nel nostro caso classi, generazioni, formazioni sociali, famiglia, governo, economia, istruzione – assolvono alle funzioni, cooperando per produrre stabilità e continuità.

Oggi – per noi – solo “pura fantascienza”.

La odierna sensazione di malessere sparso, di fatto, si è tradotto in un esteso atteggiamento, nel migliore di casi, definibile “cauto” se non addirittura “ostile” verso nuove istanze e/o opportunità.

La società attuale è caratterizzata da un flusso costante di informazioni che l’opinione pubblica non riesce a metabolizzare, rifugiandosi in un “generalismo-qualunquismo-ignorantismo” (ci si perdoni il termine) egoistico, senza comprendere che alcune informazioni (tecniche, mediche, specialistiche) vanno lasciate alla cognizione e alla gestione di coloro a cui viene – secondo regole legislative e democratiche – demandato tale compito (legislatori, governo, organi di controllo, comitati scientifici) e non governato da umori e sensazioni se non notizie oggi nomenclate “fake”.

Il “No” odierno (mal)cela una supponente necessità di proteggere il proprio benessere interiore, in un contesto sociale complesso e incerto, a discapito di una visione più ampia e omnicomprensiva.

E’ il segno di decadenza soprattutto per quel mondo che sempre più debolmente viene considerato come “civiltà occidentale avanzata” (nata con la civiltà greca), manifestato nella volontà unilaterale di dare preminente importanza a un rivendicato (nuovo nel contenuto) “diritto al consenso”, che porta le persone a rifiutare richieste che ledono il loro tempo o i loro valori, dimenticando la provocata lesione futura e permanente che si opera in danno delle generazioni che verranno. Esse, le generazioni, a differenza di ciò che avviene in altre realtà definite (erroneamente) “emergenti” (Cina, Medio Oriente arabo, area Indiana e Indonesiana) che, grazie alla realizzazione di grandi opere e delle nuove realtà correlate corrono veloci verso il futuro, si troveranno sempre più indietro e marginalizzate (a questo punto per un oggettivo ritardo culturale) proprio per la rinuncia costante e sistematica ad ogni “nuova proposta”, rispetto a quella parte del pianeta che corre verso nuovi orizzonti.

Chi aveva paura del fuoco, delle pallottole, delle trincee da conquistare, perdeva la guerra. Chi oggi ha paura del cambiamento che configura la nuova idea di pallottole, fuoco e trincee – nell’assenza di tutele esterne – è destinato a soccombere.

Non è con il costante timore dell’incertezza, della possibile minaccia di un errore o un infortunio che il mondo è andato avanti. L’ansia e lo stress piuttosto che una sentinella sono oggi un comodo rifugio per non affrontare la naturale incertezza che la vita, sin dai primordi, comporta. Questo stato emotivo che porta sempre più a una maggiore chiusura che erroneamente appare come un atteggiamento difensivo, dove il “No” opera come una barriera protettiva contro sfide e pressioni, non è altro che prodromo al precipizio futuro. Futuro che di fatto viene negato a chi verrà dopo di noi.

Ma memori del Pinocchio di Collodi e dello (sgradito) insetto ortottero, ricordiamo che quanto sopra è solo il parere di “uno che non ne capisce”.

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