Evviva Evvia u Ridinturi
Ca benedici tutta ‘a genti
Ca lu prega ccù firvuri
Si c’è Iddu, nun manca nenti
(Totò Iacono)
Sul monte San Giuliano, tutti lo sanno, c’è una statua che guarda lontano. Non è solo una figura sacra in bronzo: è una sentinella del tempo, un testimone di fede, una presenza che, ormai da più di un secolo, veglia su Caltanissetta. È il Redentore. O, per dirla alla nissena, ’u Ridinturi.
A volerlo fu papa Leone XIII nel 1896, quando lanciò un progetto ambizioso: venti monumenti al Cristo Redentore, uno per ogni regione geografica d’Italia, da innalzare su altrettanti monti. Un omaggio imponente in occasione del Giubileo del 1900, per celebrare venti secoli dalla redenzione.
Molti di quei progetti rimasero sulla carta o furono ridotti a semplici croci o cappellette votive. Ma a Caltanissetta no. Qui si fece sul serio.
La scelta del luogo non fu semplice: in Sicilia si valutavano Noto, Sutera, Piazza Armerina. Ma grazie all’ostinazione del canonico Francesco Pulci, la bilancia pendeva verso Caltanissetta: il centro geografico dell’isola, e città dalle robuste finanze minerarie.
Così, proprio sul monte San Giuliano si decise di innalzare uno dei pochi Redentori monumentali sopravvissuti all’ambizione originale. In altre parole: Caltanissetta aveva i soldi per permetterselo.
La statua fu commissionata alla ditta “Rosa e Zanazio” di Roma, che la realizzò in bronzo fuso da due cannoni pontifici — un simbolico passaggio dalle armi alla pace. Il piedistallo in pietra, elegante e sobrio, fu affidato a un maestro dell’architettura: Ernesto Basile, già co-autore, insieme al più noto padre, del Teatro Massimo di Palermo. Alta quasi cinque metri, pesante oltre due tonnellate, la statua fu trasportata in vetta con un carro trainato da sei coppie di buoi. Una vera ascesa epica.
E qui entra in gioco la leggenda. Una volta giunta in cima, nessuno sapeva come issare la statua sopra il piedistallo progettato da Basile. Ingegneri e tecnici si arresero. Fu un contadino del posto, con corde, tronchi e intuito, a trovare la soluzione. Un miracolo dell’ingegno contadino, più potente di qualsiasi formula matematica.
Un’altra storia, tramandata a bassa voce e col sorriso, racconta che durante il trasporto un uomo, vedendo il Cristo ancora disteso, si avvicinò e gli mise in bocca una sigaretta, esclamando: «Tè, fuma!». Da quel giorno, si dice, l’uomo rimase muto. Segno che certe battute, forse, conviene tenersele per sé.
La statua fu completata il 30 luglio 1900, ma come spesso accade, l’inaugurazione prevista non avvenne. Due giorni prima, il re Umberto I fu assassinato. Tutte le cerimonie vennero sospese.
L’inaugurazione ufficiale fu rimandata al 29 settembre, in coincidenza con la festa di San Michele Arcangelo, patrono della città. Ma il ritardo non spense l’entusiasmo. Pellegrini da tutta la Sicilia accorsero in massa, trasformando il monte in un crocevia di devozione.
Michele Alesso, scrittore e osservatore attento, nel 1903 scriveva con un pizzico di rammarico: «Peccato che tutta la folla accorsa per ammirare il Redentore non possa ammirare le Vare nella loro interezza, essendo dislocate in vari punti della città». Già allora era chiaro che Caltanissetta aveva molto da mostrare, ma forse non sempre con la regia giusta.
Curiosamente, la statua del Redentore di Caltanissetta non è unica: ha una gemella identica a
Formia, nel Lazio. Stessa postura, stesso volto, stessa imponenza. Un legame bronzeo che unisce
due città lontane. Gli altri Redentori d’Italia, invece, hanno preso strade diverse: alcuni sono
semplici croci, altri cappelle, altri ancora rimangono solo come segnaposti sulle vecchie mappe del
progetto papale.
Oggi, il monte San Giuliano è un luogo di incontri trasversali. Ci salgono fedeli in preghiera e ragazzi con un birra in mano, coppie in cerca di tramonti e famiglie con le immancabili biciclette per i bambini nel cofano. E poi c’è il chiostro della Zia Pina sempre presente, anche se lei non c’è più: granulose, semi di zucca, anguria, uova sode. Il sacro e il quotidiano convivono senza litigare: un equilibrio silenzioso che racconta più di mille parole.
Il Redentore osserva tutto, come ha sempre fatto. E di certo si è anche lui sentito parte di questa “nissenità” spesso dimenticata. È lì. Immobile ma presente. È diventato parte del paesaggio e dell’anima della città e per fortuna, continua a essere uno dei suoi simboli. I bambini ci crescono sotto, gli anziani ci tornano con la memoria.
Non è solo un monumento: è un punto fermo in un tempo che scorre. E quando il vento soffia forte sul monte, sembra quasi che la statua voglia parlare. Non per ammonire, ma per ricordarci chi siamo. E da dove guardiamo il mondo.