Autismo è parte di questo mondo, non è un mondo a parte

Tonino Cala
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La visione fredda, glaciale, distaccata di una società iper produttiva e consumistica genera spesso un sintomo collettivo: l’insensibilità nei confronti del disagio profondo e strutturale che colpisce i soggetti autistici e le loro famiglie. E si ignora così la scena di una sofferenza spesso nascosta e non visibile: il mondo a parte dei bambini, degli adolescenti e degli adulti segnati dall’autismo.

In un mondo smarrito, tra guerre, violenze quotidiane, crisi economiche e politiche, non è facile che trovi spazio e ascolto, sui media e nelle comuni relazioni sociali, la lingua dimenticata dei tanti ragazzi che hanno una frattura dentro, il muro dell’incomunicabilità, della lingua senza parole, del vocalizzo spezzato, dell’arcaico suono di aiuto che si rivolge al vicino di passaggio e gli dice: “sono qui, esisto, sono Paolo, Francesco, Daniele, Giuseppe, Pinuccia, Gabriella, Dora, Alessandra!”.

Quando per la prima volta incontrai un bambino autistico per il mio lavoro di educatore, provai una sensazione di paura e nello stesso tempo di enorme pietà. Io credevo di essere “normale” e non capivo i gemiti, i lamenti, il linguaggio disarticolato, i movimenti stereotipati di quel ragazzo. E poi il suo sguardo sfuggente al mio dire accorato, caloroso, che con delicata voce cercava il suo sguardo sfuggente, non riuscendo a cogliere con empatia la sua presente assenza.

Un mondo a parte? Mi sembrava che fosse “a parte”, scoraggiato dai miei mille tentativi di incontro e di comunicazione con l’altro diverso da me.

Non bastavano gli esempi del manuale di psicopatologia che avevo studiato e il corso di formazione del prof. Lerminiaux de “La Petite Maison” di Bruxelles che ci ammoniva: “Non cercate il contatto oculare con l’adolescente autistico, non lo troverete. Abbiate pazienza, molta pazienza. Lui è lì e sa che voi (vous) ci siete, vi chiederà qualcosa, un oggetto, un giocattolo da dargli per giocare o per fare strani vocalizzi. Non costringetelo a fare, osservate e aspettate le sue richieste”.

Poteva essere frustrante non riuscire a capire quel linguaggio disarticolato di suoni, che poteva sembrare afasico, e quel dondolare del corpo, quel muoversi avanti e indietro, ripetutamente, ossessivamente, per tutto il giorno. E neanche un sorriso, un ciao, uno sguardo amichevole. Poteva essere frustante. Era frustante.

Non capivo e con me neanche gli altri capivano. Ma il prof. Lerminiaux ribadiva spesso: “Non aspettatevi grandi progressi. Accettatelo così come è. Sa che ci siete e sa domandare, la domanda che fa all’altro presente”.

Tutta la pedagogia speciale che avevo studiato per i ragazzi non normodotati non mi era servita a nulla! Dovevo parlare con un muro, comunicare con un essere umano che non parlava la mia lingua e non dovevo inventarmi strane idee su possibili miglioramenti. Anche io mi sentivo come il primo uomo comparso sulla terra che parla una lingua disarticolata e che cammina a carponi, come un bambino che si muove disordinatamente e non sa dove va e cosa vuole.

Poi, con il tempo, capii, accettai, provai a sorridere, fui presente, dopo il trauma dell’impossibilità a educare, lasciando perdere le teorie pedagogiche: ero lì con lui e con lei, nella stanza dei giochi. E cercai di sostenere i genitori e di fare relazione d’aiuto con le famiglie. Si trattava di casi gravi dove ci veniva chiesta la disponibilità umana ad esserci senza pregiudizi e senza alcun filtro mentale e socioculturale.

E fu l’empatia ad aprirmi gli occhi, fu la mia umanità all’ascolto e alla relazione con l’adolescente autistico a farmi trovare la chiave di lettura di quel mondo a parte che non “era a parte” perché noi normodotati per primi avevamo il muro del pregiudizio e della paura dentro la nostra testa e non capivamo, non sapevamo accogliere quella splendida diversità umana che non era una semplice diagnosi di spettro autistico o altro.

Lo spettro era nella nostra mente bacata dalla “normalità collettiva”, la stessa che ci faceva fare diagnosi cliniche, abusando del potere di una presunta scienza priva di umanità, quando la diagnosi si fa etichetta e stigma sociale.

Noi eravamo lì con i ragazzi autistici per affermare con forza etica consapevole: siamo di questo mondo, un mondo vero che esiste, un mondo di presenze affettuose che abbattono tutti i muri. Sì, eravamo presenti. Non altro.

Tonino Calà

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