Le indagini del Commissario Falconara: 12° puntata

Lillo Ariosto
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Il “Tarocco”

“IL TAROCCO” . L’insegna sbiadita, dipinta a mano da qualche talento spento della Calatorre che fu, dondolava sulla testa di Pasqualino detto “sette bellezze”, come il titolo del film candidato all’Oscar della Wertmuller. Per lo stesso motivo del protagonista della pellicola, il soprannome era dovuto al fatto che era l’unico uomo della famiglia, composta da sette donne. Nel caso di Pasqualino una più brutta dell’altra. Compresa la madre.

Le sei sorelle – sebbene tutte di “lieve bellezza” – avevano comunque trovato marito. E tutte si erano sistemate. Le prime, le più grandi, avevano sposato due inseganti. Uno di italiano, l’altro di matematica. A Pasqualino era andata bene. Uno lo aiutava nella compilazione delle fatture, l’altro nei conti del negozio. Una sorella era maritata al ragioniere Lupìano, impiegato alla Provincia. Un tipo “splavido”. Una si era trasferita a Milano, o meglio, in un paesino vicino “Mèlano”. Il marito aveva vinto un concorso al Comune di Morimondo, un centro della valle del Ticino di non più di mille anime. Pasqualino quando parlava di questa sorella – Mariannina – si compiaceva perché era diventata “continentale”. Spiegava a tutti che stava a “Moribondo”, storpiando funereamente il nome del paesino dell’area metropolitana milanese.

Le altre due erano andate a vivere in provincia, sempre per seguire i mariti. Una a Pietrarotta e l’altra a San Rocco. L’unico che non aveva trovato una femmina da sposare era proprio Pasqualino che, a dire il vero, male non era. La testa però l’aveva sempre “girata” al lavoro e tempo per le femmine da sposare non aveva. Di piaceri a pagamento però se ne passava, eccome.

Aveva messo su un bel negozio. Era voluto rimanere in centro storico, dalle parti della chiesa di Sant’Agnese, la santa protettrice dei capelli. Il fatto forse non era casuale. Pasqualino infatti sfoderava una capigliatura folta e compatta, di un nero corvino invidiabile, a dispetto dei suoi cinquanta e passa anni.

Il commissario era cliente assiduo di Pasqualino “Il Tarocco”, questo era il vero soprannome del fruttivendolo nella mente di Falconara e non per quello che poteva sembrare un epiteto burlesco. Anzi. Falconara per Tarocco intendeva quello “siciliano”. Non l’arancia dalla tenera e profumata polpa ma il gioco delle carte in passato utilizzato per scopi divinatori. Nel Tarocco siciliano i semi delle carte rappresentano il sistema delle caste sociali. I bastoni raffigurano la classe agricola e operaia. Le coppe simboleggiano il clero e il potere temporale. Pasqualino “Il Tarocco” per il suo lavoro aveva contatti con tutti ranghi della gente e quindi l’appellativo per il commissario calzava a pennello.

“Pasqualino mi dia due mazzi di finocchi e un chilo di arance. Stasera, insalata di finocchi e arance. Il pane me lo ha portato Angelino, il fornaio di Terrabruciata. Lo fa ancora con il “criscente”.

Falconara amava la buona cucina ma era scarso come cuoco domestico. Anzi ripudiava per principio i fornelli. Molte volte andava a pranzo in una antica trattoria che adesso, in omaggio ai “des temps nouveaux” si chiamava Il Ristorantino. Non disdegnava il pesce, nonostante stesse nel centro, più centro, dell’Isola. In piena collina, in mezzo ai mari di spighe e covoni.

Per la sera, alcune – poche – volte, amava “consarsi” qualcosa lui stesso. Ma di malavoglia. Insalata, secondo la stagione. Una zuppa di ceci o fagioli, rigorosamente in barattolo, a cui aggiungeva una verdurina come finocchietto o “giri” (bietole per gli “oltre faro”), sempre in barattolo. Spesso non disprezzava farsi fare uno spezzatino di agnello agglassato dalla rosticceria vicino alla chiesa di Sant’Orsola, che ritirava prima di tornare a casa. Sublime carne di agnello cotta con cipolle e patate. Una squisitezza con il grasso della carne che diventava salsa densa, appunto, la glassa. Falconara odiava i salumi. Gli insaccati in genere, tranne la salsiccia di maiale in purezza. Per il vino, con l’agglassato preferiva il rosso forte. “U Calabrisi”, quello delle vecchie osterie, adesso nobilitato come il pregiato Nero d’Avola.

“Commissà, le dò dei finocchi che mi hanno portato da Mezzafino, che sono dolcissimi. Là ci hanno acqua dei loro pozzi. Non è ammiscata con niente. Né disinfettanti, né detersivi”.

Per detersivi, il fruttivendolo intendeva concime e additivi vari. Pasqualino orripilava per qualunque cosa si aggiungesse a quello che madre natura dava. Molti sostenevano che beveva tranquillamente l’acqua della gibbia, il vascone di campagna per abbeverare gli animali.

“Pasqualino è da solo, oggi?

“Commissà a quel cornutino di Giovanni se lo sono portati. In questura è chiuso. Da lei. Commisà niente sa?

Falconara rimase un attimo a riflettere. Ricordava di avere visto dei ragazzi accompagnati da alcuni agenti. Ma aveva ritenuto cosa di poco conto.

“E perché è in questura?

Fece il commissario.

“Ma che ne so. Dice che, con altri suoi compagni, ci trovarono catenine, orologi, monete d’oro e d’argento. A Giovanni, che tanto sperto non è, ci trovarono pure una moneta che non vale niente. Pure spirtusata è! L’ho ha capito? Una moneta vecchia con un buco al centro. E’ sciamunito totale stu picciotto.

Falconara rimase come folgorato. Gli ritornò in mente il racconto in cortile. Rivide la scena, riferita dal ragazzino, della catenina del gatto Beniamino gettata dietro il muretto del patio da quello che adesso di rivelava essere il garzone di bottega del fruttivendolo. Ringraziò Pasqualino, salì in macchina, ripose finocchi e arance sul sedile posteriore e fece rotta verso la questura.

Falconara sapeva cosa fare.

Non sapeva però a quale mala cosa stesse andando incontro.

Continua…..

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