Ci sono nomi che, una volta attaccati addosso, non si staccano più.
Come una seconda pelle, come un’ombra che segue anche quando il sole non c’è.
A volte toccano a una famiglia intera: un soprannome, una ’ngiuria, una parola che diventa destino. Nessuno sa davvero da dove venga, ma tutti la portano. E Caltanissetta non fa eccezione. Coscia di Pollo, l’Americano, il Palermitano, u Lurdu, Marantò, a Baffuna, a Casigna, Chiachiò (specializzato in pernacchie), Carolina, a Reggina, Cirlina, i Marziani, Ucchiddu, Cirlinciò, Cirimiciò, Catinazzu …
C’è però un caso particolare. Non riguarda una famiglia, un singolo, bensì un popolo intero.
Caltanissetta, per molti, è “Maonza”. E i suoi abitanti sono i “maonzisi”.
Il nome nasce lontano, eppure vicino. Quando i pupi giravano per la Sicilia, raccontando le gesta di Carlo Magno, di Orlando, di Rinaldo e di paladini pronti a morire per onore, c’era sempre un’ombra che compariva sulla scena: Tano di Magonza – o Gano, poco cambia. Lui, il traditore. Colui che mise in ginocchio i suoi stessi compagni, vendendo la lealtà per un pugno di gloria amara.
Tano di Magonza è il traditore per eccellenza dell’epica cavalleresca. Nobile alla corte di Carlo Magno, trama nell’ombra contro i paladini e contro lo stesso imperatore, spinto da invidia e ambizione. È lui che consegna i compagni al nemico saraceno, orchestrando l’agguato di Roncisvalle dove cade Orlando. Nei pupi siciliani appare sempre con volto scuro e sguardo infido, simbolo eterno dell’inganno che si muove tra le pieghe della lealtà.
Il pubblico non dimenticava. Bastava dire “Magonza” per evocare l’inganno.
Un personaggio talmente famoso da meritare un posto nell’inferno dantesco.
E così, quando la storia bussò alle porte di Caltanissetta, quel nome era già pronto ad attecchire.
Nell’estate del 1820, mentre Palermo si accendeva di rivoluzioni, anche il cuore della Sicilia fu travolto dai moti.
A Caltanissetta, città che godeva di privilegi concessi dai Borbone, l’aria era diversa: prudenza, moderazione, paura che un cambio di regime potesse far perdere più di quanto promettesse.
Ma dai paesi vicini, e in particolare da San Cataldo, fedele a Palermo, partì l’offensiva.
Il principe Salvatore Galletti, nobile sancataldese, radunò un esercito e lo portò sul Monte Babbaurra, alle porte della città. Le condizioni imposte a Caltanissetta erano dure: abolizione di tribunali e uffici regi, ingenti contributi di denaro, sottomissione totale alla causa rivoluzionaria. Fu questo lo scenario della storica battaglia tra Caltanissetta e San Cataldo. Fu lo squillo d’inizio di una guerra fratricida.
Con l’aiuto di rinforzi da Naro, i sancataldesi avanzarono e il 12 agosto entrarono in città. Poi iniziò il saccheggio, due giorni di devastazione che segnarono a fuoco la memoria dei nisseni. Si parlò perfino, ma è qui che la storia incontra la leggenda, di cannoni puntati dal monte San Giuliano, pronti a radere al suolo l’intero centro abitato.
Quando, il 7 settembre, arrivarono le truppe borboniche guidate dal generale Costa, cessò finalmente la battaglia.
Il processo coinvolse più di mille imputati, ma alla fine solo i mandanti furono condannati. Gli altri, semplici contadini e artigiani travolti dalla rivolta, ottennero amnistia e indulto.
Eppure, da quella guerra tra vicini nacque un soprannome.
I sancataldesi, ricordando la battaglia di Babbaurra, cominciarono a chiamare i nisseni “tradituri” per essersi schierati con i Borboni.
E presto quell’accusa prese una forma più teatrale, più popolare: “maonzisi”.
Traditori come Tano di Magonza, il pupo che da secoli portava addosso l’onta del tradimento.
Così “maonzisi” rimane, parola doppia come una lama: per alcuni ferita, per altri gioco, per altri più semplicemente tifo da stadio.
Ma è pur sempre un nome che racconta, che tiene viva una memoria antica.
Nei teatri dei pupi, Tano di Magonza continuerà per sempre a tramare nell’ombra,
ma fuori dal palcoscenico la vita scorre, e le città nemiche di ieri si ritrovano sorelle di terra, di mercati, di lavoro, divise da pochissimi chilometri ed un’unica strada, via Due Fontane.
Forse, alla fine, “Maonza” è solo questo: una favola che non smette di camminare, un titolo cucito addosso che col tempo perde il peso e resta come traccia, come eco che fa parte della storia di tutti, anche di chi ancora si sente punto.
E quando la parola torna a farsi sentire in piazza, tra una battuta e una risata, pare quasi che il sipario cali di nuovo, con la musica di un organetto, e che da lontano, insieme ai paladini, il pubblico applauda anche al traditore.