Le indagini del Commissario Falconara. 15° puntata

Lillo Ariosto
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FINALE

Il segreto e l’arcano

Bacco lo stava a guardare dal soffitto affrescato della sala in cui era arrivato salendo la scala laterale una volta a servizio di servitù e fornitori di quella che era stata una delle famiglie più potenti della città. Tutti scappati e tutti estinti. Alcuni morti in circostanze misteriose. Ultimi epigoni di quella aristocrazia terriera e mineraria dilapidatrice di enormi ricchezze di cui non aveva avuto merito alcuno.

Quello che per i Greci era stato Dioniso su quel soffitto appariva ancora come il simbolo della ebbrezza, della sensualità, della euforia che avevano caratterizzato gli ultimi riti orgiastici della effimera age d’or di Calatorre. Chissà quanti di questi culti erano passati sotto il suo sguardo fiammeggiante nei duecento e passa anni di vita del palazzo.

Nella penombra scagliata dalle bifore dai vetri opachi per la antica polvere continuò nel suo itinerario clandestino. Entrò in quello che sembrava un piccolo atrio che faceva da anticamera a un salone imboscato tra pesanti tendaggi dal colore oramai imprecisato. Spostò un lembo di quella cortina di panno pesante e si introdusse in un ambiente quasi al buio. Notò quello che una volta era stato un bastone da passeggio e spostò le due ante della finestra che dava sul cortile interno. Anch’esso allo oscuro.

La stanca luce rivelò la parete, vista qualche giorno prima, dipinta con parti di un paesaggio dai motivi floreali, guarnito da figure di animali esotici. Era il pannello indicato da Maria Stella che aveva dimenticato nella sua Golf la copia delle chiavi con cui aveva aperto. Fissò quelle immagini. Incominciò a scrutarle.

Tra i tralci di vite e un albero di acacia spiccava un grande panno cadente su un mobile dai piedi a zampa di leone. Su un lembo, in basso, individuò qualcosa che a prima vista appariva come un ghirigoro e che invece si rivelò essere una grande “G”. Più in là un covone di grano illuminato da una stella splendente. Sul lato opposto, su un cielo azzurro, spiccava quasi l’intero firmamento con sole, pianeti e astri accompagnati da lettere dell’alfabeto greco. La punta di un compasso indicava chissà dove.

Si sentì percorrere la schiena da uno strano brivido di freddo. Non se ne curò. Seguì con lo sguardo il verso della gamba del sesto geometrico. Si accorse che puntava sul lato destro della parete, leggermente verso il basso, dove iniziava il lembo superiore della boiserie, la decorazione in legno che rivestiva il muro.

Scarsamente aiutato dalla tenue luce che penetrava dalla finestra iniziò a tastare con la mano il pannello dipinto. Scorreva liscia sulla superficie senza alcuno inciampo. Nessun incavo, nessun anello da scatto, nessuna fibbietta. Niente. Nulla. Il grande felino dall’alto lo fissava ancora maestoso. Lo fissò anche lui. Non amava essere guardato a lungo. Quando succedeva costruiva una sfida con il suo interlocutore sfoderando una occhiata fiera, affilata, penetrante. Fece così con quel leone.

Iniziò a guardarlo negli occhi. Lo scrutò profondamente. A lungo. Chissà da quanti anni quelle pupille si rivolgevano in quel buio. Adesso parevano soffrire il recente chiarore. Soprattutto l’occhio sinistro. Sembrava più spento dell’altro. Come se attendesse una lacrima che gli riconsegnasse la luminosità rubata. D’istinto fece un passo in avanti. Un attimo dopo si paralizzò. D’improvviso un cigolio proveniente da chissà dove precedette il lampo che si abbatté sulla sua mente.

Tremò. Tremò ancora. E poi ancora. Infilò istintivamente la mano nella tasca destra della giacca. Tastò in quel vuoto di tessuto. Temette il peggio. Riprese la calma. Aveva trovato quello che cercava. Tirò fuori la moneta bucata. Si ritrovò a palpare la parete dove aveva risvegliato quel leone dipinto. Incurante di un (im)possibile morso fece scorrere la mano sulla bocca del felino, poi sul naso, senza scompigliarne i baffi. Si ricordò che erano solo dipinti. Posò il palmo più in alto sino a raggiungere la pupilla smorzata. Improvvisamente gli fu tutto chiaro nel buio (quasi l’ossimoro).

Poggiò la moneta sulla iride spenta del leone in corrispondenza del foro al centro della spiga. Uno strano silenzio piombò nella stanza. Poi, di colpo, da quell’iride venne fuori quella che somigliava a una “taccia”, il chiodino a testa piatta usato dai ciabattini per risuolare le scarpe. La toccò. Era fredda. Quasi gelida. Gli sembrò di avvertire il bruciore del morso di un ago. Non era così.

Si rivelò invece il puntale di un tasto. Lo spinse. Un “clac” annunciò lo spalanco di un piccolo sportello mimetizzato tra i rami di acacia affrescati sul muro. Temette, come nei film di Indiana Jones, uno sparo o lo scoccare di un dardo a lui indirizzati. Un rumore sinistro si manifestò. Incurante di ogni possibile tranello spostò lo sguardo in direzione di quel suono minaccioso.

Un fruscio stridente precedette l’affacciarsi di un astuccio metallico che mostrava la sua bocca slacciata. All’interno di quello scrigno giaceva coperta da ragnatele quasi secolari una cassettina di legno chiusa. La guardò dubbioso. Titubante, indeciso, quasi esitante. Poi, di nuovo incurante dell’azzardo, la aprì. All’interno un fagotto di tela chiara, fasciata dal rosso arcaico di quelle che sembravano tracce di sangue raggrumato.

Raccolse l’involto con la mano. Si rivelò pesante. Un effluvio di qualcosa di familiare gli si attaccò alle narici. Non ne comprese le origini. Abbandonò ogni indugio. Scartò quel plico di stoffa. Tra i lembi corrosi apparve una vecchia – strana – pistola in parte fasciata da un fazzoletto guastato da altre gocce di sangue rappreso. La osservò con sospetta curiosità. Sentì risvegliarsi qualcosa di conosciuto. Le narici vennero di nuovo aggredite dall’odore di poco prima. Raccolse l’arma avvolta nel suo sudario imbrattato di sangue arcaico. Ne volle sentire ancora una volta l’odore. Gli ricordò ancora qualcosa.

“Di Buono allora? Cosa mi dici della pistola? Il tuo mega laboratorio supertecnologico è riuscito a farla parlare? Cosa ne hai ricavato?

Salvatore “Totò” Di Buono era il capo della sezione della scientifica dove l’arma era stata portata da Falconara. Di Buono era amico-nemico del commissario e il tono con cui gli si era rivolto mal camuffava questo sentimento di contrastata ammirazione.

““Arma loqui”. Le armi parlano caro Falconara. Parlano, parlano. Non puoi immaginare quanto. Più dei cristiani. A volte gridano. E questa urla!

Di Buono era un giovane già con il grado di vice ispettore. Era nella polizia scientifica da oltre quattro anni ed era stato incorporato come esperto in armi e balistica. Lui ammirava il commissario ma non lo voleva ammettere.

“Complimenti Falconara. Sei l’Indiana Jones della questura. Hai un bel fiuto. E forse anche un bel fattore “C”. La pistola che hai scovato nello scrigno vomitato dal ventre di leone che ti guardava con l’occhio “fanzino” è stata per anni oggetto del desiderio non sai di quanti tuoi colleghi. Molti ci hanno perso il sonno. E non solo. Qualcuno pure la carriera.

Di Buono sembrava una mitraglietta in azione. Si vedeva che aveva l’ansia di dire tutto al commissario. Qualcosa di grosso forse era stato scoperto. Qualcosa che per lungo tempo aveva impegnato varie menti della questura di Calatorre. E altre intelligenze lontane. Adesso si trovavano altrove. Qualcosa di cui in molti in città avevano sempre voluto dimenticare. E Falconara aveva riesumato il mistero.

Lo scienziato-poliziotto continuò.

“E’ una Lathi L-35, un’arma finlandese, o almeno l’ha progettata un finlandese. Aimo Lathi si chiamava. E’ stata prodotta dal 1935. L’arma venne ideata con un acceleratore a bullone per aumentarne l’affidabilità in situazioni di freddo. Questo tipo di sistema è raro sulle pistole. L’esercito finnico la utilizzò nella guerra russo-finlandese, la guerra d’inverno la chiamarono. Un conflitto che fu combattuto tra il 30 novembre 1939 e il 12 marzo del 1940. E’ rarissima in Europa occidentale. Era utilizzata dai vertici dei servizi segreti della Germania nazista. Chissà come è arrivata in Sicilia. E poi a Calatorre addirittura. L’hanno cercata sempre senza mai trovarla. Si era persa ogni speranza. E adesso vieni tu e la riporti alla luce. Solo tu potevi arrivarci, temerario come sei”.  

Di Buono fece una pausa ad arte. Aspettava una reazione di Falconara che invece non arrivò.

“E’ celebre perché faceva parte dell’inventario fatto redigere al notaio Cruciana dalla famiglia Calascino, quando acquistarono il palazzo dei principi Fascianella. I coniugi Calascino furono trovati morti sparati, uno accanto all’altro. Si parlò di una questione di corna. Teatro. Tutta farfanteria per coprire chissà quale turpe misfatto. L’autopsia rivelò fori provocati da proiettili calibro nove compatibili con la tua pistola. Non sono mai stati trovati né l’arma, né l’autore o gli autori del delitto. Sconosciuto il movente. Sconosciuto il momento della morte. Almeno ufficialmente. Quando vennero trovati i cadaveri erano i primi giorni del luglio del ’43. Poco prima del bombardamento degli alleati. Il palazzetto dove furono rinvenuti era stato centrato da un ordigno. In un primo momento vennero ritenuti vittime dello sganciamento delle bombe alleate. Fu un ufficiale americano, accompagnato da un tipo di cui nessuno mai conobbe l’identità, con doppiopetto scuro e aria marziale, che reclamò i corpi per farne eseguire l’autopsia. Da lì si scoprì che erano stati freddati da due colpi di pistola.”

Di Buono riprese fiato.

“Misterioso non ti pare? E adesso vieni tu, ritrovi l’arma del delitto e riesumi il mistero.”  

A Falconara passò velocemente davanti agli occhi un film con la vedova Lo Celso, il gatto Beniamino, Massimo e Giovanni – i monelli del cortile – Maria Stella e quel leone alla parete dall’occhio pigro che lo stava incastrando, piantandogli nella mente un altro (terzo) mistero da risolvere. Il primo, la sparizione del gatto, lo aveva risolto. Il secondo, la moneta delle vecchie dieci lire, anche con il ritrovamento della pistola. Adesso, il terzo, gli si stava presentando con tanto di enigma allegato. Cosa era successo veramente ai coniugi Calascino in quell’inizio di luglio del ‘43?

Falcona quella notte non riuscì a prendere sonno.

Anche qualcun altro. A Calatorre.

FINE

Lillo ARIOSTO

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