“Mio padre era un arameo errante: narrazione biblica e mutazioni storico-culturali”

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di Don Massimo Naro

Riprende giovedì 9 ottobre, nell’aula magna della Facoltà Teologica di Sicilia, a Palermo, il percorso annuale di riflessione sulla Bibbia “grande codice” culturale, per mettere in luce le smagliature che nella nostra cultura si producono quando il messaggio biblico è obliato, o frainteso, o strumentalizzato.

Il tema che verrà illustrato è formulato con la citazione di un versetto tratto da un libro dell’Antico Testamento, il Deuteronomio: «Mio padre era un arameo errante» (Dt 26,5). Molti studiosi delle Scritture bibliche hanno riferito questa frase ad Abramo, considerato un nomade originario della regione di Aram, o Harran (dove rimase a vivere suo fratello Nahor). Simone Paganini – in suo corposo saggio sul Deuteronomio (Paoline, 2011) – e altri esegeti hanno, più recentemente, tradotto dall’ebraico con maggiore precisione: «Un arameo smarrito era mio padre».

In realtà, «smarrito» ed «errante» si possono reputare termini sinonimi, il secondo più aulico del primo, ma pur sempre (quasi) corrispettivo al primo. La ricerca filologica ha però chiarito che il testo di Dt 26,5 non si riferirebbe ad Abramo, bensì a Giacobbe-Israel, figlio di Abramo, rifugiatosi in Harran, presso le tende di quello che poi, dopo averlo vessato per parecchi anni, diventò suo suocero, Labano. D’altronde Giacobbe-Israel fu protagonista certamente di una vicenda nomade, transfuga dalla casa di suo padre e poi tornato indietro a riconciliarsi col fratello Esaù. E il prosieguo di Dt 26,5 ci fa intuire che in quell’arameo errante e smarrito è impersonato l’intero popolo israelitico, forestiero in Egitto, prima prosperoso e poi ridotto in schiavitù dal faraone, infine liberato da Jhwh Adonai tramite Mosè.

In ogni caso, questa espressione biblica è stata scelta per fare da abbrivo alla riflessione del prof. Mauro Pesce, biblista e storico, già ordinario di storia del cristianesimo all’Università di Bologna. A lui gli ideatori del percorso formativo sul “grande codice” chiedono di evidenziare il rapporto che c’è tra le narrazioni bibliche (che trasmettono e tramandano la memoria di una storia accaduta sì, ma non sempre così com’è stata narrata) e le mutazioni storico-culturali successive a quell’antica epopea. Mutazioni che possono anche essere indotte da manipolazioni ideologiche della memoria e della stessa narrazione biblica.

Il prof. Pesce, assieme a sua moglie – la prof. Adriana Destro, antropologa – ha studiato negli anni scorsi i meccanismi della trasmissione delle memorie storiche e il nesso che sussiste fra tradizione comunitaria e identità religiosa. Perciò potrà pure spiegare efficacemente come le narrazioni bibliche (che non sempre e non necessariamente sono resoconti storici) possono fungere da chiave ermeneutica utile a interpretare il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando anche sotto il profilo religioso e spirituale.

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