di Don Massimo Naro
1. Il tema discusso in questo convegno interdisciplinare – in cui non solo la ragione si esercita nello studio del cuore in quanto muscolo cardiaco, ma pure si indagano le ragioni del cuore, per dirla con Pascal – mi fa tornare in mente il verso con cui Dante, nel xxxiv canto dell’Inferno, descrive il proprio sgomento di fronte a Lucifero: «Io non mori’, e non rimasi vivo». Chi legge la Commedia sa che quando Dante giunge nel punto più profondo della terra, nella tana ghiacciata di Satana, in superficie albeggia il sabato santo dell’anno 1300, il giorno cioè in cui liturgicamente si commemorava – allora come oggi – il descensus ad inferos del Crocifisso.
Un lettore attento dell’Apocalisse giovannea, come indubbiamente Dante fu, non poteva non ricordare ciò che il Risorto annuncia quasi all’inizio di quell’ultimo scritto neotestamentario: «Io morii, ed ecco sono vivente per sempre e ho le chiavi della morte e degli inferi» (Ap 1,18). E non dimenticava nemmeno la risposta che il Cristo dà – stavolta nel vangelo secondo Luca – alla supplica di uno dei ladroni suppliziati assieme a lui sul Golgota: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno», gli aveva detto quel pover’uomo, sentendosi replicare: «In verità ti dico che oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,42-43).
Il verbo essere, nel greco dell’evangelista, è coniugato al futuro, ma probabilmente Luca, così, recepiva la proiezione in avanti che lo stesso verbo essere, in ebraico, mantiene sempre, anche quando è coniugato al presente. Perciò si può intendere che Gesù rispose: «[…] oggi con me sei nel paradiso», volendo dire che il paradiso non è un luogo ulteriore rispetto alla terra, uno spazio remoto, nascosto chissà dove al di sopra delle nuvole, bensì una relazione stretta e sincera col Cristo, un rapporto personale con lui, la condivisione di una comune e accomunante condizione: in quel caso, il terribile supplizio.
L’inferno in terra può ben essere già il paradiso, se vissuto insieme col Cristo. D’altronde l’esperienza del morire rischia sempre di esser subita come una sorta d’inferno, soprattutto quando si muore a seguito di una dolorosa tortura, o di una malattia avvertita come una tortura. Anche Dante voleva rendersi solidale al destino di Cristo, dal di qua prima che nell’aldilà, stando ancora dentro i confini del suo personale inferno, vale a dire nel bel mezzo della drammatica congiuntura biografica che lo vedeva esule e perseguitato. Quel suo enigmatico verso, perciò, esprimeva da una parte la precaria condizione esistenziale del poeta e dall’altra parte l’esigenza di riorientarla e di oltrepassarla – insomma: di trovarne il senso – associandosi alla vicenda pasquale del Crocifisso-Risorto.
Il verso dantesco calzerebbe a pennello anche a Harry Potter, «il ragazzo che è sopravvissuto, venuto a morire», dice di lui il suo maligno avversario, Lord Voldemort, in una sequenza dell’ultimo episodio cinematografico della saga ispirata ai romanzi di J.K. Rowling (2011). Qualche sequenza dopo Harry Potter dialoga col suo mentore, Albus Silente, ritrovandosi in una sorta di limbo sospeso tra la vita terrena, la morte e l’altra vita. Un posto strano, o straordinario, luminosissimo, che «somiglia alla stazione di King’s Cross, solo più pulita…», osserva Harry, arrivandovi dopo esser stato fulminato con la bacchetta magica da Voldemort, eppure come fosse ancora vivo, senza un graffio, lucido ancorché spaesato e confuso. «È vero tutto questo, o sta accadendo dentro la mia testa?», chiede il giovane al vecchio. E Silente gli risponde: «Certo che sta accadendo nella tua testa, Harry! Dovrebbe voler dire che non è vero?».
2. Qualcuno potrebbe pensare, alzando il sopracciglio, che queste degli autori neotestamentari, o di Dante e della Rowling, siano fantasie prescientifiche. Eppure le intuizioni che le ispirano sono analoghe a quelle che, ai nostri giorni, fanno da presupposto a certe ipotesi scientifiche della fisica quantistica, secondo cui il “dopo” può ben essere prima del “prima” e il futuro può rivelarsi “remoto” (i verbi, lo sappiamo, si possono coniugare al futuro semplice o al futuro anteriore: ma, seguendo la “teoria delle stringhe” si potrebbe forse aggiungere il futuro remoto, dato che ciò che sarà potrebbe risultare persino precedente al Big Bang).
Non so fino a che punto siano attendibili queste supposizioni scientifiche. Dal punto di vista teologico a me sembrano plausibili, dato che concordano con l’annuncio neotestamentario secondo cui il Cristo crocifisso-risorto è l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine (cf. Ap 1,8.18 e 21,6), come tale capace di rendere a sé contemporanei Adamo non meno dei miei genitori deceduti solo qualche anno fa.
Del resto anche il sapere scientifico, in epoca moderna, ha un controcanto fantascientifico e finanche mitico-religioso. Penso ad alcune applicazioni dell’IA volte a garantire una metempsicosi digitale alle nostre memorie personali, per farci sopravvivere in un aldilà ormai tutto algoritmico. Lo prospettava nel 1994 il fisico Frank J. Tipler, ipotizzando quella che potremmo considerare l’immortalità cibernetica, guadagnata tramite il mind uploading, cioè mediante il trasferimento dell’autocoscienza personale – vale a dire, in termini neuroscientifici, le informazioni custodite nel cervello di ciascun essere umano – dentro un dispositivo digitale. E c’è già chi tenta di programmare delle app che conservino i ricordi dei defunti e li affidino alla rielaborazione dell’IA, affinché i loro familiari possano ripassarli in rassegna come consultando un archivio.
Se fosse davvero possibile, equivarrebbe a entrare in una virtuale stanza delle meraviglie. E non manca chi vorrebbe ripristinare con l’IA l’interazione tra la coscienza digitalmente mummificata del defunto e quella dei suoi visitatori ancora vivi: la coscienza del defunto, così, potrebbe risvegliarsi e ricominciare con i suoi familiari o amici la relazione interrotta dal trauma della morte, dispensando consigli e incoraggiamenti. L’immortalità dell’anima, in questo caso, si tradurrebbe nell’immortalità della mente (più esattamente: delle informazioni conservate nel cervello di ognuno) e l’IA ne diventerebbe la custodia, il tabernacolo più che il sepolcro, prolungando e anzi potenziando algoritmicamente le sinapsi cerebrali, in tal modo eludendo l’encefalogramma piatto.
Cogliendo l’indole misticheggiante di queste congetture, Erik Davis ha parlato – nel 1998 – di «tecnognosi». Essa traduce i saperi tecnoscientifici in religione secolare. Cioè in una religione che immagina la trascendenza non oltre il mondo ma dentro il mondo stesso, anche se ormai si tratta del mondo delle macchine. Le macchine, alimentate dall’IA, diventano il cielo dell’essere umano.
Devo confessare che la tecnognosi mi pare una versione postmoderna di quelle credenze religiose premoderne secondo cui la coscienza umana, con tutto il suo bagaglio di memorie individuali e collettive, si va trasferendo di corpo in corpo ogni volta che si muore. Anche quelle antiche credenze sono incardinate sul concetto di sopravvivenza. Penso all’immortalità dei faraoni per come la prometteva il Libro dei morti, il cui titolo originale si potrebbe tradurre, dall’antico idioma egizio, Libro per uscire al giorno, o Libro per emergere alla luce.
E penso soprattutto alla reincarnazione per come la concepisce il monachesimo buddhista con la dottrina del Bardo, ossia dello stadio intermedio tra morte e rinascita. Franco Battiato ha realizzato, nel 2014, un interessante docufilm, intitolato appunto Attraversando il Bardo. Uno dei lama intervistati da Battiato così spiega tale dottrina: «Con il morire vi è il graduale dissolversi della “mente grossolana”. Va sorgendo la “mente della chiara luce”, che può comprendere la “vacuità”, ossia la natura ultima di tutti i fenomeni. Il momento della morte è un’opportunità per ottenere la “vacuità” e trasformare la morte nell’illuminazione».
Sono espressioni suggestive, che possono anche suggestionare se ribadite per avallare la reincarnazione e, con essa, una comprensione dicotomica della persona o – al limite – una comprensione impersonale, non personalistica, piuttosto naturalistica, dell’essere umano, secondo la quale i corpi non mantengono alcun legame con le anime, anche se ne condizionano l’esistenza: le anime, in quest’ottica, sarebbero immortali, ma pure resterebbero costrette a trasmigrare di corpo in corpo, ogni volta caricandosi dell’esperienza vissuta in ciascun ciclo corporeo.
3. Se continuiamo a presumere che la morte sia il momento in cui l’anima si separa dal corpo, ammettiamo un’«insufficienza antropologica», come notava opportunamente il gesuita tedesco Karl Rahner, nel suo saggio Sulla teologia della morte. La concezione cristiana dell’essere umano, difatti, è olisticamente personale. Ciò vuol dire che ciascun essere umano è un tutt’uno inscindibile. Potrei dire che ogni essere umano è tutto il suo corpo, come è anche tutto la sua anima. È un corpo animato ed è un’anima incorporata. Non potrebbe essere altrimenti per il cristianesimo, che prende abbrivo dalla vicenda storica di Gesù, non culminata nella morte e neppure nella reincarnazione, bensì nella risurrezione. Cioè nel ritorno a vita nuova del suo corpo, prima deposto esanime nella tomba.
Tuttavia, anche secondo la fede cristiana “qualcosa” in Gesù si trasfigura, tanto che i suoi discepoli non lo riconoscono mai di primo acchito quand’egli a loro appare risuscitato. Lo riconoscono non per le sue fattezze fisiche, bensì in forza di una somiglianza esistenziale, quando ascoltano il Risorto e ricordano quello che aveva loro insegnato il Maestro di Nazaret, o allorché vedono fare al Risorto un gesto che era tipico del loro Maestro, per esempio la frazione del pane durante la cena di Emmaus. D’altra parte “qualcosa” del Risorto – il suo Spirito – si trasmette oltre di lui, ai suoi discepoli: per questo ogni volta che essi giungono a fare comunione col Risorto, questi scompare, lasciandosi ormai rappresentare da quei suoi amici.
In quest’altra ottica, è utile distinguere tra corpicità e corporeità. La corporeità non si riduce alla corpicità. La corpicità è fisica, materiale, temporale, intramondana, biologica. La corporeità, invece, è sinonimo di storicità ed è una condizione in definitiva spirituale: è l’esperienza vissuta nel mondo tramite il corpo e acquisita nella personalità di ciascun essere umano, divenendo patrimonio biografico, come tale indeperibile finché ne sussisterà un qualche ricordo. Per questo il concrocifisso del Golgota, cui prima accennavo, chiede che il Cristo si ricordi di lui. E per questo, secondo la liturgia esequiale, con la morte, «la vita non è tolta, ma trasformata».
Non è questa la sede per approfondire il fondamento cristologico della concezione cristiana della vita, della morte e della risurrezione. Ma tanto può bastare per dire che pur nella radicale discontinuità fra dottrina buddhista e fede pasquale, si può recuperare comunque una qualche continuità tra di esse, se non altro perché entrambe considerano la morte non come un improvviso blackout ma come una totale illuminazione.
Il teologo cattolico che nel corso del Novecento s’è avvicinato maggiormente alla dottrina del Bardo è stato, a mio parere, Ladislaus Boros. Egli ripensava la morte alla maniera dei Padri della Chiesa antica, cioè come dies natalis: il giorno della vera nascita di ciascun essere umano, preceduto da una gestazione che si prolunga, più o meno, per l’intera vita biologica di ognuno. Ecco perché l’hora mortis conserva, nella tradizione cristiana, una grandissima importanza, esigendo continua preparazione interiore. Non per niente la spiritualità cristiana ha sempre incoraggiato esercizi e pratiche di “apparecchio alla morte” (famoso quello proposto da Alfonso Maria de’ Liguori) e la preghiera più diffusa, l’Ave Maria, invoca l’intercessione della Madonna proprio in hora mortis nostrae.
In questa prospettiva la morte non è un evento che colpisce all’improvviso, quasi a tradimento, l’essere umano, magari sorprendendolo nello stato di peccato, una sorta d’imboscata che Dio tende al peccatore per condannarlo inappellabilmente. La morte, persino la morte improvvisa, smette d’essere qualcosa di minaccioso per la salvezza spirituale dell’essere umano. Al contrario, essa può e deve essere vissuta come occasione propizia per l’opzione finale, o per la «decisione ultima», come la chiamava Boros: cessando d’essere solo un cortocircuito biologico, la morte diventa il momento opportuno per rivolgere al Cristo la medesima invocazione di quell’uomo crocifisso con lui sul Golgota. Secondo Boros, infatti, nel momento della morte l’essere umano raggiunge la sua maturità esistenziale, matura il massimo grado di consapevolezza e di coscienza personale. Al momento della morte, chi muore è illuminato – come mai prima – dalla luce pasquale e dalla verità di Cristo e riguardo a lui è chiamato a decidersi responsabilmente. In tal senso anche i peccatori più incalliti, anche chi professa altre credenze religiose, anche gli atei, anche chi perisce in un incidente o cade vittima di un attentato o soccombe in guerra, anche i cardiopatici infartuati, o gli ammalati di Alzheimer o chi soffre di gravissime turbe mentali, anche i neonati che non riescono ad aprire gli occhi sul mondo o le persone con incurabili disabilità psicofisiche, morendo sono illuminati dalla verità di Cristo e possono incontrarlo nella chiarezza totale, ossia nella conoscenza più profonda e alta della realtà e nella libertà più autentica e piena.
La morte è, dunque, la definitiva rivelazione di Dio in Cristo Risorto, la parusia del Figlio dell’uomo, l’epifania suprema che abilita l’essere umano a scegliere Dio, senza rischiare più d’ingannarsi. Sotto questo riguardo, la morte è anche il punto di massima umanizzazione dell’essere umano, che riesce finalmente a compiere l’atto più vero e più libero, perciò più umanamente degno, divenendo veramente e compiutamente se stesso.
L’ottimismo che promana da questa visione teologica è coerente all’annuncio evangelico secondo cui il Dio rivelatosi in Cristo è Agape, vale a dire Amore totale, per tutti, nessuno escluso. E ha la virtù non certo di annullare la morte ma di stemperare e, anzi, sconfiggere la paura della morte, anche di quella improvvisa.


