Carlo Amleto travolgente al Margherita: grande spettacolo di teatro cabaret

fiorellafalci
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Ha colorato il bianco e nero con il colore della sua “parola musicante”, Carlo Amleto, mattatore assoluto in una scena spoglia, con il tavolino del TGzero e il bianco e nero di un pianoforte che fa meraviglie. E in più soltanto le luci, che seguono il ritmo della musica.

Un Margherita sold-out come non si vedeva da anni, perfino nel loggione, e soprattutto un pubblico diverso da quello delle soirée teatrali della nostra provincia appassita: giovani e non, bambini e agée, sorridenti e rilassati, pronti a farsi coinvolgere dalla verve spericolata di Carlo Amleto, altro che quarta parete: un corpo unico nel teatro a riprodurre la vita, con la sua complessità piena di non-senso, con i suoi significati sfuggenti, i linguaggi destrutturati, i canoni della comunicazione smontati e rimontati al ritmo della musica. E il desiderio di muoversi, di abbandonarsi al ritmo, di non rimanere soltanto spettatori.

Sono soprattutto i suoni, gli accenti, il ritmo a restituire i significati autentici alle parole che sfumano, si perdono nel grammelot, con la punteggiatura di un corpo che riesce a muoversi sdoppiandosi come sapeva fare soltanto Totò, recuperando lo sberleffo con le gambe rispetto alla seriosità, apparente, del frac impettito e dei capelli impomatati.

C’è una struttura robusta, sotto l’apparenza leggera del one-man-show di Carlo Amleto: la tessitura di piani di lettura diversi della realtà, della memoria, in cui si svelano i vuoti delle retoriche consolidate mettendo di fronte al pubblico lo specchio di una società della comunicazione che non comunica più significati autentici ma che possiamo invece “leggere” passando per i suoi giochi linguistici e i monologhi surreali.

È l’apparente non-senso a svelarci la verità, che non è consolatoria, anche se fa esplodere risate liberatorie a ripetizione, capaci di scomporre l’aplomb dei più rigidi, risate che non sono di facile evasione dalla realtà, ma la presa di coscienza della sua irrazionalità, che attraverso la risata non ci fa più paura.

Il TGZero è il capolavoro di questo genere: è la cadenza, il ritmo delle parole, a scandire una catena di ovvietà e il loro ribaltamento, a comunicare il senso della banalità del male del qualunquismo comunicativo in cui viviamo immersi, riconoscendoci parte in causa, ma senza sensi di colpa.

Si ride di gran gusto, ma con il cervello, come il gesto iconico del marameo sulla fronte, la firma di Carlo Amleto sul suo spettacolo, a smitizzare il movimento più “drammatico” del resto del corpo, ma riportando il focus sulla mente, nonostante il non-senso, nonostante tutto.

C’è un precedente illustre di questo stile di Carlo Amleto, di questa impostazione surreale che gioca con le lingue, i dialetti, i registri della comunicazione per svelarne i vuoti e i pieni: Ettore Petrolini, giusto un secolo fa, scintillante di ironia non dichiarata ma feroce, sui vizi del potere, sulle miserie di cui è impastata la nostra quotidianità. Carlo Amleto, che riesce a fare parlare gli animali come se fossero umani, e viceversa, è senz’altro il suo erede, con i linguaggi e gli schemi di oggi, ma con la stessa presa corrosiva, sotto l’apparente inoffensività del non-senso.

Girerà tutta l’Italia “Scherzo n. 1 Opera Prima”, da Roma e Milano dove ha debuttato, passando dalla sua Caltanissetta, finalmente “profeta in patria”, dove è stato sommerso dall’entusiasmo e dall’affetto del pubblico.

A noi sembra ancora di sentirlo nell’aula magna del suo liceo, eseguire al pianoforte Marzo 1821 di Manzoni, dissacrandone la retorica, a ritmo di rap. Sarebbe piaciuto anche a Manzoni

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