Sembra quasi di essere tornati al 1993, ai tempi di “mani pulite” e delle manette, quando ogni giorno venivano fuori i reati di corruzione che travolgevano una intera classe politica. Prima la Puglia con i suoi assessori, poi la Sicilia con il vice-presidente della Regione, indagini su ministri e sottosegretari, tanti anelli di una catena di episodi di criminalità politica, in cui il sistema del voto-di-scambio sembra essere diventato un connotato strutturale e persino scontato della nostra democrazia, senza molte distinzioni di schieramento politico.
Emerge un rapporto sempre più stretto tra la quantità di consenso che un esponente politico esprime, i “signori delle preferenze”, e i meccanismi di corruzione che si mettono in atto, e molto spesso la quantità dei voti raccolti che ne determinano le fortune elettorali è inversamente proporzionale alla qualità politica, culturale e, naturalmente, morale.
Perché molti cittadini scelgono di affidare il proprio potere di rappresentanza a questo genere di personaggi? Scelgono, spesso, di mettere sul mercato il proprio voto? Evidentemente perché non assegnano al voto l’importanza della sovranità popolare che attraverso il voto si esprime, non ne riscontrano altra, superiore, utilità né il potere di determinare, attraverso la politica , un cambiamento della propria condizione di disagio e la difesa dei propri diritti negati.
Gli studi sulle dinamiche elettorali hanno ormai individuato con certezza scientifica che la scelta del non-voto, quella rinuncia consapevole all’esercizio della democrazia che ormai nel nostro Paese riguarda quasi la metà dell’elettorato, riguarda soprattutto gli strati sociali più marginali, le periferie del disagio in cui non attecchisce più la speranza, i lavoratori più schiacciati dal precariato o i disoccupati, i soggetti più esposti al bombardamento delle fake news e culturalmente meno attrezzati.
È quella parte di società che proprio la Politica dovrebbe essere capace di rappresentare, se è vero che la Politica non è solo gestione del potere abitando le istituzioni ma organizzazione quotidiana della partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato, una partecipazione non virtuale o consultiva, ma qualificata da una visione di società, da obiettivi di trasformazione positiva da costruire e conquistare, da valori etici e culturali che possano sostenere l’impegno, i sacrifici, il coraggio che spesso la battaglia politica impone.
Nel nostro Paese e in Sicilia questo modello di impegno politico ha caratterizzato una fase importante della nostra storia: gli anni della ricostruzione, del dopoguerra, quando sono diventati protagonisti di grandi movimenti politici milioni di contadini, operai, lavoratori emarginati che nel primo secolo della storia unitaria italiana erano stati tenuti fuori dalla democrazia organizzata, a cominciare dalle donne, che il diritto di votare lo avevano conquistato nel 1946, riconosciute finalmente come cittadine con pari dignità nel Paese che portavano avanti, da sempre, con la fatica del loro lavoro, dentro e fuori casa, sostenendo con la cura quel “welfare familiare” che sostituiva i servizi sociali inesistenti.
Quegli italiani si erano dati degli obiettivi, che i partiti politici avevano elaborato e trasformato in movimenti di lotta e poi in riforme concrete, dando qualità ad un conflitto sociale, anima di ogni democrazia, in cui si confrontavano gli interessi e i valori delle classi sociali e delle diverse culture politiche. Il voto era legato a queste dinamiche, ed era uno strumento chiaro di difesa dall’emarginazione, di valorizzazione e promozione umana, di protagonismo sociale. I partiti erano scuole di democrazia e di vita, in cui si imparava l’idea e la pratica del bene comune, superiore all’interesse individuale e capace di cambiare la nostra vita solo se insieme agli altri.
Quando la politica ha abbandonato il conflitto sociale per ridursi ad occupazione delle istituzioni e dei luoghi di potere, e in questo la responsabilità della Sinistra è ancora più pesante, al protagonismo popolare si è sostituito il leaderismo mediatico che genera inevitabilmente subordinazione, sottomissione, asimmetria, riproponendo nelle società democratiche le stesse dinamiche che tra le due guerre mondiali avevano caratterizzato i regimi totalitari, in cui il culto del capo carismatico sostituiva la partecipazione popolare al potere, teneva a bada il disagio con la consolazione dell’identificazione virtuale, sostituiva la partecipazione con la mobilitazione.
L’analisi critica della società è stata sostituita dai sondaggi che indicano ai leader quello che il popolo vuole sentirsi dire, disinnescando la carica innovativa, costruttiva, della Politica per ridurla ad organizzazione elettorale telecomandata dai vertici, come hanno dimostrato le leggi sulle liste bloccate, attraverso le quali una decina di dirigenti politici decidono la composizione dei due rami del Parlamento.
Lo spazio pubblico della socialità, in cui la Politica dovrebbe misurarsi per elevare la qualità democratica del Paese, è diventato uno spazio di mercato, che segue le dinamiche della domanda e dell’offerta sul piano più brutale dello scambio, in cui è più forte il potere di chi sta in alto, che ha in mano gli strumenti, i canali di comunicazione, determina gli argomenti da usare e i problemi di cui invece non si deve parlare.
Nessuno contrasta con forza questa dinamica, che mercifica la sovranità popolare ed oggettivamente esclude, allontana, chi non si vuole prestare a questo mercato e non trova la possibilità di essere rappresentato, di condividere una visione, di sentirsi parte attiva di una comunità che lo riconosce e lo valorizza nella sua dignità di persona.
Quando sul mercato una merce perde valore il suo prezzo scende, insieme alla sua qualità.
Dobbiamo rassegnarci al fatto che questo processo sta stravolgendo i connotati della nostra democrazia, fino a farla ritenere inutile da quasi la metà del nostro popolo? Senza una democrazia che dia vita e valore alla dignità di ogni persona i sistemi si trasformano in “democrature”, le dittature contemporanee in cui la democrazia è solo un guscio vuoto formale, un voto da esprimere periodicamente per legittimare chi già detiene saldamente il potere, mentre le sedi del potere reale diventano sempre più invisibili, occulte, svincolate dalla volontà popolare e da qualunque riferimento ideale e culturale. Il potere diventa fine a se stesso, e tutti sono più o meno uguali in questo sistema. Il modello Putin è più vicino di quanto non sembri.
Il non-voto alimenta i mostri del consenso drogato dalla corruzione, che a sua volta incoraggia il distacco dalla politica, la democrazia perde la sua qualità identificativa della nostra società (“L’Italia è una Repubblica democratica…”) e lo spettro dell’autoritarismo truccato da populismo diventa sempre più egemone.
Non c’è proprio più niente da fare?