Il 6 agosto del 1980, 45 anni fa, verso le 19, in via Cavour a Palermo, il Procuratore della Repubblica Gaetano Costa cadeva sotto i colpi dei killer di mafia mentre passeggiava senza scorta vicino ad una bancarella di libri.
E’ stato uno dei delitti più dimenticati, quasi rimossi dalla memoria collettiva, sin da subito quando, complice il mese di agosto, pochissime “autorità” erano state presenti ai suoi funerali, confermando plasticamente l’isolamento in cui si era trovato nel “palazzo dei veleni” di Palermo e che era stato decisivo per la sua eliminazione.
Aveva firmato da solo, dopo il rifiuto dei suoi Sostituti, le ordinanze di convalida dell’arresto per 55 componenti delle famiglie mafiose Spatola-Inzerillo-Gambino, trafficanti internazionali di eroina (che stavano proteggendo in quei mesi la fuga anonima in Sicilia del bancarottiere Michele Sindona) e la notizia si era subito diffusa fuori dal Palazzo, confermando la sua “alterità” rispetto ad una magistratura prudente, felpata, rispettosa degli “equilibri”, che a Palermo aveva assistito alla recrudescenza mafiosa quasi senza colpo ferire.
Costa aveva da sempre un’altra impostazione nel contrasto alla criminalità: negli anni in cui era stato Procuratore della Repubblica a Caltanissetta aveva individuato con lucidità le mutazioni con cui la mafia si modernizzava, passando dal controllo delle campagne a quello della pubblica amministrazione, della spesa pubblica e delle assunzioni, come aveva dichiarato in audizione alla prima Commissione Parlamentare Antimafia, mentre il Sindaco di allora dichiarava invece che la mafia era ormai “biologicamente estinta”.
A Caltanissetta aveva cominciato a seguire anche le strane evoluzioni del sottobosco bancario locale, arrivando a indagare anche sul Governatore della Banca d’Italia, il mitico Guido Carli, per omessa vigilanza su quanto avveniva di poco chiaro in quella periferia finanziaria.
Non ha mai rilasciato un’intervista, e sosteneva che un magistrato “deve passeggiare da solo”, lontano dagli ambienti elitari e dai loro intrecci di potere; osservava la società che si trasformava da una poltrona della libreria Sciascia, dove ogni tanto ritrovava Leonardo Sciascia, poche parole e molti sguardi entrambi, uno dei pochissimi che aveva la sua stima e la sua amicizia. Si erano sposati entrambi nella chiesa della Provvidenza negli anni della guerra e avevano condiviso gli anni difficili della ricostruzione
Trasferito a Palermo da Procuratore della Repubblica nel 1978 trovò subito una sorda ostilità: bollato come “Procuratore rosso“, per il suo passato di partigiano e l’adesione giovanile al gruppo comunista clandestino di Pompeo Colajanni, Emanuele Macaluso, Gino Cortese e Leonardo Sciascia durante la dittatura fascista. Ma fu subito chiaro che erano altri i motivi del “cordone sanitario” intorno a lui nel Palazzo di Giustizia: “Di lui si può comprare solo la morte” si disse subito dentro e fuori dal Palazzo, registrata la sua impermeabilità a qualunque condizionamento e/o accomodamento con gli equilibri dei poteri forti che esercitavano il potere sul territorio.
Cominciò ad indagare sui patrimoni, tentando di penetrare nei santuari della finanza criminale coinvolgendo le banche (e destando grande scandalo per questo). Seguiva le tracce degli appalti e delle imprese sempre “vincenti”, specialmente dopo l’omicidio del Presidente della Regione, Piersanti Mattarella, che a quella stessa palude aveva rivolto le sue intenzioni di moralizzazione dell’amministrazione regionale.
Quando ne parlava con Rocco Chinnici, unico magistrato di cui si fidava pienamente, bloccavano l’ascensore del palazzo a metà corsa per evitare di essere intercettati.
Nessuno è stato condannato per la sua morte, nè esecutori materiali nè mandanti, nonostante il processo in Corte d’Assise a Catania, nella cui sentenza conclusiva si delinea però un contesto individuato nella zona grigia tra affari, politica e crimine organizzato: “E’ aleggiata su alcuni episodi (e ciò dicasi per i continui avvicendamenti ai vertici della Guardia di Finanza di Palermo) l’ombra nefasta della P2 di Licio Gelli“.
La moglie Rita Bartoli e il figlio Michele per tutta la loro vita hanno cercato la verità, senza risultati contro il muro di gomma dei poteri forti. Il suo lavoro fu continuato da Giovanni Falcone, che riuscì a far condannare in processo i mafiosi colpiti dai mandati di cattura che Costa aveva firmato da solo, e Rocco Chinnici, che ne condivise il metodo di indagine con il suo pool antimafia. Entrambi saltarono in aria con il tritolo mafioso, Chinnici nel 1983 e Falcone nel 1992.
Oggi il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ne ha ricordato il sacrificio: “Magistrato di alta preparazione professionale, di riconosciuta indipendenza e di grande equilibrio, Costa ha condotto delicate ed efficaci indagini sulle organizzazioni criminali operanti nel territorio siciliano, cogliendo, con lungimiranza, la complessità del fenomeno mafioso e la sua penetrazione nei pubblici poteri e nei sistemi socio-economici. Fare memoria del suo esempio significa rinnovare la ferma adesione ai principi di giustizia e di legalità, condizione essenziale di ogni comunità autenticamente libera e democratica”.
Aveva saputo guardare lontano, troppo avanti. Senza compromessi, senza accomodamenti