In tempi così mesti la scrittura non deve rinunciare alla grande ambizione di ricercare la verità, di mettere in guardia dalle ingiustizie e di svelare gli inganni. Un compito ingrato, oneroso e, senza dubbio, sporco per chi ha compreso che le parole possono diventare come la sabbia gettata sulla ferraglia di un motore al fine di incepparlo.
Scrivere è, dunque, pericoloso. Lo è senz’altro la lettura, nella prospettiva di un cambiamento di comportamenti acquisiti o per noia o per paura.
Scrivere e leggere si pongono, quindi, in un rapporto dialettico efficace, a patto che l’esito non indirizzi verso un porto consolatorio che conforti l’inquietudine o che confermi pregiudizi e opinioni.
È la voce possente di Azar Nafisi, docente universitaria di letteratura anglosassone di origine iraniana, a raccontare come le lettere, infatti, se si tramutano in specchio per le società verso cui si rivolgono, agiscono da fertilizzante per le coscienze.
Leggere pericolosamente, sua ultima fatica tradotta da Anna Rusconi per i tipi di Adelphi, invita, perciò, ad un impegno immediato non solo come lettori attenti sui problemi sociali della contemporaneità, tali da tradursi inevitabilmente in interrogativi politici, ma anche come spiriti inquieti che ritrovano nella scrittura e nella lettura il tempo di ricomporre sé stessi di fronte alle cesure del male.
È la stessa autrice ad accompagnare verso la corretta interpretazione del proprio scritto, informando più volte, nel corso della trattazione, come, ad esempio, nella lingua araba, parola e ferita derivino dalla medesima radice etimologica, giacché una parola, se ben affilata sul tornio della verità, squarcia costruzioni e proiezioni inventate, come pallide coperte di carta velina, a vantaggio di chi ha del tutto da guadagnare dall’oppressione altrui in ogni sua manifestazione possibile.
Per questo motivo, leggere con lucidità eretica e scrivere con piglio antidogmatico, sotto un potere assoluto o in una democrazia accettabile, restano le attività che dicono quanto si è disposti a rischiare per una vita autentica. Nafisi, per esempio, ha scelto di non tacere dinanzi agli abusi della teocrazia iraniana e ha pagato la propria parresia, avendo imboccato la via dell’esilio verso Washington.
Una condizione che si è palesata obbligatoria per l’autrice per non tradire, innanzitutto, l’umore laico della famiglia di origine; poi, per non immiserire, con un velo di ipocrisia, il proprio mestiere di docenza e, infine, per testimoniare, al netto dell’angoscia delle torture e del dolore dell’incarcerazione, la speranza di avviare una piccola rivoluzione culturale tesa al mutamento di uno stile di vita, non per questo esclusivamente ascrivibile al contesto iraniano, che nel suo mutismo avvalora il più delle volte la sottomissione o, nel suo ammiccamento, si propone suo compiacente.
Perciò, il saggio dell’autrice, forte di questa ardua incombenza, opta per una struttura non di certo peculiare al genere argomentativo. Nafisi indica, infatti, cinque percorsi di lettura, attingendo ad alcune opere, da costei ritenute paradigmatiche per i temi che intende mettere a nudo, di scrittori e di scrittrici classici e contemporanei.
I suggerimenti dell’autrice si dipanano sotto la forma di cinque lunghe lettere, composte durante la pandemia e destinate al padre Ahmad Nafisi, ex sindaco di Teheran, oppositore del regime degli ayatollah e morto da tempo al momento della stesura di esse. Questo espediente narrativo, che si misura con le tecniche introspettive dell’epistolografia, concede all’autrice di navigare in più spazi temporali, senza rinunciare alla volontà precipua di intercettare un dialogo sincero con il lettore, dove una lettura consigliata, che superficialmente potrebbe essere dirsi conclusa nel tempo della sua definizione, si offre, invece, come mezzo per esplorare il presente.
Le lettere narrative letterarie di Nafisi, non sono, perciò, tanto distanti dagli scopi della prosa filosofica occidentale volta a scandagliare la complessità dell’animo umano, sospeso tra azione e indecisione.
E, sullo sfondo dei temi di volta in volta commentati, l’autrice sapientemente colloca gli spunti sociali e politici, emersi dall’approfondimento letterario, sul piano delle vicende storiche dell’umanità, evitando uno scollamento dalla realtà.
Molto significativo, in questa direzione, è la proposta di lettura che spinge ad immedesimarsi nelle spire di violenza suscitate dal conflitto israelo-palestinese, per mezzo del confronto di due grandi autori di quell’area geografica, l’israeliano David Grossman e il libanese Elias Khoury.
La conclusione non è affatto edulcorata: popoli spinti all’odio reciproco attraverso una spietata educazione alla disumanizzazione delle persone, tale da non risparmiare oppressi né oppressori. Tutti, alla fine, sono travolti dalla sofferenza in questo conflitto sempre più esistenziale che geo-politico.
Ma è possibile inceppare il motore della virulenza, come scrive l’autrice nel citare gli scrittori mediorientali consigliati, disimparando a guardare con gli occhi che il nemico desidera di voler incrociare. Non resta, perciò, che lasciarsi coinvolgere dal percorso originale che Azar Nafisi ha tracciato nel proprio saggio, perché ogni lettore viva in libertà e in autonomia il proprio tempo.
Bisogna, in qualche modo, far suppurare le ferite che le parole, quelle dettate dal cuore e dall’intelligenza, hanno ingenerato, affinché esse liberino il pus di una pigrizia cognitiva, amica del potere e madre dell’ignoranza.
Essere sovversivi non è cosa così malvagia, oggi.