“Il sale dei morti” di Salvatore Falzone: un giallo sciasciano sul paradosso esistenziale

Roberto Mistretta
9 Min Leggere

Un romanzo intenso, Il sale dei morti, di Salvatore Falzone, da poco in libreria per l’editore Neri Pozza nella prestigiosa collana I Neri.

Un romanzo lontano dal poliziesco classico, caratterizzato da indizi e indagini in maniera pedissequa, e che, al contrario, affonda le proprie radici negli insegnamenti dei padri nobili della letteratura isolana, come Sciascia e Bufalino, a cominciare dalla cura ricercata della scrittura e del vocabolo giusto al posto giusto, non a caso lo strillo di copertina firmato da Massimo Onofri recita: Un giallo sorprendente di atmosfere sciasciane, un innovativo contributo alla storia di un genere letterario sempre più popolare.

Un romanzo a tutto tondo, dunque, con una critica senza appello al potere e alle sue prevaricazioni in ogni forma e in ogni aspetto, in ogni luogo e tempo e che, come dichiarato dall’autore nel corso dell’ultima presentazione in ordine cronologico, tenutasi nella Sala Livatino, della biblioteca comunale di Mussomeli, non disdegna gli insegnamenti di altri autorevoli maestri come il belga George Simenon, noto soprattutto per essere il papà del commissario Maigret, e Friedrich Dürrenmatt, autore di due capolavori immortali come La promessa e Il giudice e il suo boia.

Salvatore Falzone parte dalla nostra terra, il Vallone in particolare, per raccontare un mondo universale che dipana sì le proprie trame nel territorio circostante, bellissimo seppure deturpato da cicatrici impietose impresse dall’uomo, ma soprattutto per raccontare l’uomo e la propria dualità, dove bene e male si confondono, diventano ombra e luce, e distinguere diventa problematico per ognuno di noi, seppure imperativo per trovare la strada giusta circa la direzione da imprimere al proprio vissuto.

Sotto tale aspetto Salvatore Falzone è bravissimo a portarci nel cuore delle varie scene che fanno da contrappunto alla trama, che si articola attorno alla miniera di sale abbandonata, dove sono stati sepolti rifiuti tossici e che tanti appetiti attira per essere risanata e convertita. La storia vede protagonista un siciliano nato e cresciuto nell’isola ma formatosi professionalmente e idealmente nell’europea metropoli di Milano, l’ortopedico Ernesto Vassallo, che a 49 anni torna nella sua terra e lavora presso l’Asp. Nell’isola gli era rimasto soltanto uno zio, che lo aveva cresciuto dopo la tragica morte dei genitori, ed è per lui che Ernesto è tornato. Chi dunque meglio del dott. Vassallo, un pedigree immacolato ed encomiabile, con un lignaggio culturale da spendere nel territorio, potrebbe incarnare il candidato ideale a sindaco di T., il comune dove la storia è ambientata?

Ernesto, il cui passato travagliato gli ha lasciato profonde ferite che ne condizionano i rapporti affettivi, ha una storia con Klara, ragazza dell’Est, anche lei non esente dalle ombre delle proprie vissuto.

La trama prende abbrivio dal ritrovamento da parte di Ernesto nella miniera di sale del cadavere di Youssef, un giovane marocchino, giardiniere poeta, bello dentro come fuori, che troppi sguardi attirava da parte delle donne sposate, ma anche dagli uomini. Proprio con Youssef, Ernesto aveva stabilito un legame cerebrale e stava cominciando a guardare al mondo attorno a sé con gli occhi della bellezza. Youssef si esprimeva in francese, la lingua più musicale ed elegante esistente al mondo,  e descriveva con poche parole la natura circostante.

Della trama non voglio aggiungere altro per non inficiare ai lettori il piacere della lettura, ma per raccontare ancora un po’ questo romanzo e condividere le sensazioni che mi ha suscitato, partirei dalla frase di chiusura: L’istante in cui si perde ogni certezza è quello della vita, che vede il nostro Ernesto Vassallo di fronte a una scelta aperta per un finale tutto da scrivere. Una frase che mi ha riportato alla mente un altro personaggio letterario straordinario, quel Martin Eden immortalato dal genio di Jack London: Nell’istante in cui seppe, cessò di sapere.

Proprio sul tragico paradosso esistenziale della dualità dell’uomo si gioca tutta la vicenda de Il sale dei morti, nelle cui pagine assistiamo alla disperazione esistenziale di Ernesto Vassallo che nel momento di massimo sconforto penserà perfino al suicidio, come soluzione estrema all’incubo fin troppo reale in cui si ritroverà invischiato e in cui ognuno di noi sarebbe potuto cadere.

A stemperare la miserabilità dell’uomo e le ignobili azioni che compie, l’autore contrappone l’incommensurabile bellezza di una terra, la nostra, che diventa paradigma di un paradiso a portata di mano che aspetta soltanto di essere vissuto se rispettato e non sfruttato e maltrattato.

Eccone un paio di assaggi.

Pagina 101:  Un fremito indicibile di colori scuoteva l’intero paesaggio: il verde giovanissimo delle colline alla rinfusa, la luce bianca rosata dei mandorli, il digradare dei grigi delle rocce sui crinali, ora soavi ora più aspri, i rettangoli di terre multicolori: grassa e nera, oppure farinosa e gialla, le cui striature di diverso orientamento componevano una trama incomprensibile. Qualcosa era accaduto in quei luoghi, qualcosa continuava ad accadere silenziosamente, misteriosamente.

Pagina 162: Vagabondò ancora per mezz’ora per strade sterrate tra vigneti e olivi, mandorli, pistacchi in fiore, distese d’erba verde e fiori gialli. Superò un passaggio a livello dismesso, le rotaie invase da fichi d’India; poi una casupola coi muri coperti da graffiti. Attraversò un piccolo ponte di pietra sotto il quale, tra ciottoli e ghiaia, luccicava un velo d’acqua. Ernesto scosse la testa: in quella valle spietata, palpitante di vita nuova, lui solo era rimasto addormentato. Intanto continuava a guidare, lentamente, col finestrino abbassato. Udiva il cinguettio frenetico degli uccelli. Sì, era tutto un risvegliarsi nella luce del mattino… Dans le matin d’un printemps nouveau… Ecco, di nuovo, la voce di Youssef… Ivre d’eau pure et de chants d’oiseaux… Era un sussurro chiarissimo, quella voce. Ma lui, Youssef, era lontanissimo, inafferrabile: lui che comprendeva il linguaggio dei fiori, il canto degli uccelli, il respiro della madre terra con cui, lui sì, respirava all’unisono.”

Pagina 186:  La fattoria incombeva dall’alto con un residuo di iattanza. Il tetto merlettato, le imposte sbriciolate, l’altissima palma al centro della corte diroccata: la costruzione aveva nel complesso un che di sfuggente, di ineffabile, di spaventoso. Ernesto scrutava la fattoria e intanto risentiva la voce di suo padre. Ferma, sicura. Non era la voce di un padre che mente al figlio per insegnargli a tracciare i confini del bene e del male, e così addita le cose e le fa diventare buone e cattive. La voce del padre era sincera quando gli bisbigliava quella frase, guancia a guancia, con l’indice teso al di là del parabrezza verso la-casa-di-una-persona-cattiva. E per un istante fu assalito da una specie di paura infantile e indefinita. Ora però non vedeva più quella casa. Vedeva la torre, i campi dorati, le domeniche d’estate, silenziose, senza folla, senza messe né pretini.

Un libro da leggere per riflettere e godersi il piacere di una lettura ad alti livelli.

Roberto Mistretta

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