La casa natale di Michele Tripisciano

Francesco Daniele Miceli
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Ci sono luoghi che si attraversano distrattamente, piccole case nascoste tra vicoli e silenzi. Poi, un giorno, una targa di marmo ci costringe a fermarci: lì è accaduto qualcosa, lì è passato un frammento di storia.
È il caso della casa natale di Michele Tripisciano, nel cuore della Saccara, che grazie a Le Vie dei Tesori riapre per la prima volta al pubblico dopo lunghi decenni di abbandono.

L’edificio, acquistato dal Comune circa vent’anni fa, recentemente restaurato grazie ai fondi del PNRR, racconta la vita e la formazione di uno degli artisti più raffinati dell’Ottocento italiano. Due targhe, accanto al portone d’ingresso, ricordano lo scultore nisseno che divenne celebre a Roma per le decorazioni dell’Altare della Patria e del Palazzo di Giustizia, per il monumento a Gioacchino Belli a Trastevere e per le opere religiose nelle chiese di Sant’Andrea della Valle e San Gioacchino.

Eppure, nonostante il successo, Tripisciano non si allontanò mai davvero da Caltanissetta. Qui volle tornare, qui volle essere sepolto. La sua casa natale si apre oggi attraverso un ampio cortile, un tempo laboratorio del padre vasaio: era lì che l’argilla prendeva vita, tra le mani di chi modellava la terra e, forse, anche il destino del giovane Michele.

All’interno, un unico ambiente con soppalco e archi in pietra viva custodisce testimonianze e oggetti del suo lavoro d’artista: documenti, studi, e persino un taccuino colmo di schizzi, segni rapidi che raccontano la mente in movimento di chi sapeva vedere la forma prima ancora che nascesse.
Tra quei muri, oggi, si ritrovano libri, tesi, ricerche, tutto ciò che nel tempo ha ricostruito il ritratto di un uomo e del suo talento.

Nato nel 1860, figlio di un artigiano, Tripisciano mostrò fin da bambino una naturale inclinazione per la modellazione della creta. Notato dal barone Lanzirotti e dall’onorevole Pugliese, partì per Roma per studiare all’Ospizio San Michele, dove affinò la sua arte nel solco della classicità.
Dopo un periodo nella bottega di Francesco Fabi Altini, aprì un proprio studio e ottenne importanti riconoscimenti, tra cui la medaglia d’argento dell’Accademia di San Luca per l’opera Caio Mario sulle rovine di Cartagine.

Il suo capolavoro rimane il Monumento a Giuseppe Gioachino Belli: un’opera che gli regalò fama e ammirazione, ma anche grande fatica. Un amico gli scrisse parole che suonano come un epitaffio d’arte e di vita:
“Hai voluto eternare il Belli — ma hai finito per immortalare te stesso.”

Morì nel 1913, a soli 53 anni, stanco ma sereno, nella città dove tutto era cominciato. Lasciò in eredità bozzetti, gessi e studi preparatori, che oggi costituiscono il cuore del Museo Tripisciano di Palazzo Moncada.

La riapertura della sua casa è un gesto di memoria.
La bellezza è spesso nascosta dietro un portone, in un cortile dimenticato, in una storia da ascoltare.

foto di Francesco Daniele Miceli. La foto in copertina è tratta dalla pagina Facebook di Pasquale Carlo Tornatore

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