di Don Massimo Naro
Intervento di Don Massimo Naro al Convegno “Non c’è salute senza salute mentale” tenutosi a S. Cataldo nella Giornata Mondiale della Salute Mentale a cura dell’Associazione “Noi per la Salute-Tina Anselmi”
Non sono medico, o psicologo, o psichiatra, ma semplicemente uno studioso di teologia. Per questo, intervenendo in questo convegno – in cui si parla di salute e, in particolare, di salute mentale – mi sento come un elefante dentro un negozio di cristalli.
Essendo uno studioso di teologia, nel formulare il titolo di questa mia riflessione mi sono lasciato ispirare da uno dei libri biblici dell’Antico Testamento, precisamente dal libro di Giobbe: personaggio tragico, nel quale si sono immedesimati importanti rappresentanti della cultura moderna (pensiamo, per es., a Giacomo Leopardi, che a Giobbe si sentiva moralmente apparentato). I Padri della Chiesa, a loro volta, nei primi secoli del cristianesimo, vedevano in Giobbe un precursore di Cristo, per il suo travaglio esistenziale, oltre che per le sue sofferenze fisiche.
In Gb 5,18 si legge, dunque, la frase che ha ispirato il mio titolo: «Dio ferisce e fascia, colpisce e risana». Da questo versetto biblico ricavo quella che definisco la “schizofrenia” di Dio, messa a confronto con quella che per tanto tempo è stata chiamata la “follia” degli esseri umani.
La frase di Giobbe riecheggia pure in altre pagine dell’Antico Testamento: nelle Scritture bibliche spesso si leggono affermazioni analoghe, secondo cui Dio abbassa ed esalta, rimprovera e consola… L’intera storia dell’antico Israele sembra ipotecata da questo pendolare modo di comportarsi di Jhwh Adonai. Maria di Nazareth sintetizzerà nel suo Magnificat quella lunga storia ondivaga proprio nei termini che ho appena ricordato: Dio abbassa ed esalta, innalza e rovescia.
Nel Nuovo Testamento questa eccentrica (e contraddittoria) condotta divina non risparmia nemmeno Gesù, il quale – per parte sua – accetta di umiliarsi fino alla morte pur di obbedire alla volontà del Padre suo, per poi però essere risuscitato ed elevato alla gloria del cielo. Per questo san Paolo scrive che il Cristo crocifisso-risorto è «scandalo per i giudei e follia per i greci, ma per chi crede è sapienza di Dio».
Sono, queste, espressioni che udite con un orecchio tardo-moderno, dopo Freud, potrebbero farci sospettare proprio una patologia di tipo mentale in Dio: appunto una sorta di schizofrenia, o almeno un disturbo bipolare, che indurrebbe Dio stesso a farci fare la medesima vertiginosa altalena del suo imperscrutabile e volubile umore: up and down, su e giù, come sulle montagne russe, sballottolandoci a destra e a manca. E, perciò, fracassandoci le ossa.
In tal caso noi saremmo le vittime del suo delirio, pagandone dolorosamente le conseguenze e finanche venendo contagiati dal suo stesso delirio (e, non a caso, sotto forma di delirio religioso vengono – o venivano – catalogati certi disturbi del comportamento o certe malattie in una certa misura difficili da diagnosticare con chiarezza e quindi da curare con efficacia: penso ad alcune forme di emicrania cronica, oppure all’impressione ossessiva di sentire delle voci, tutti fenomeni accostati ai trasporti mistici di alcuni santi e di alcune sante).
In realtà, le espressioni bibliche, che ho rievocato, comunicano due cose. La prima: gli esseri umani, quando parlano di Dio, lo immaginano in riferimento a sé stessi, alle proprie debolezze o qualità; e, quindi, attribuiscono l’incomprensibilità e l’inafferrabilità dei suoi “comportamenti” a qualcosa che assomiglia ai nostri stessi squilibri relazionali. La seconda: nel linguaggio umano usato nella Bibbia riecheggia comunque il “dirsi di Dio”, la sua vera Parola; e ciò significa che la duplicità comportamentale di Dio indica pure (anzi: piuttosto!) la sua ulteriorità, la sua sovreccedenza rispetto a noi. Il salmista lo intuiva già millenni or sono e avvertiva che «una Parola Dio dice, due ne udiamo».
Il suo rimproverare e poi incoraggiare, il suo ferire e poi curare, assomigliano del resto – già secondo Gesù – al comportamento di un padre che ama seriamente: rimprovera coloro che vuole correggere, non per annichilirli, ma per migliorarli.
È qui che si incardina il concetto di follia, che il cristianesimo ha attribuito innanzitutto a Dio e, di conseguenza, a chi sceglie di assomigliargli, cioè ai santi: la follia d’amore. Si pensi, per es., a Francesco d’Assisi, giullare di Dio, che insegnava al suo amico frate Leone come diventare un agnellino, seguendo la via della perfetta letizia: perfetta letizia è, tuttavia, quando tutti gli chiuderanno la porta in faccia, e lo insulteranno e lo bastoneranno e lo cacceranno persino dal suo convento. I Fioretti di san Francesco – redatti tra il 1370 e il 1390 a partire dalla biografia del santo prima scritta da Tommaso da Celano – documentano anche in altre pagine questa follia che è – in verità – prova provata di santità.
Ma anche capolavori letterari più recenti tematizzano la santità cristiana come fosse follia. L’opera più significativa sotto tale profilo mi pare L’idiota, di Dostoevskij: il protagonista del romanzo, il Principe Myskin (strana assonanza col nostro “mischino”) è ammalato di epilessia, una malattia nell’Ottocento ancora fraintesa come una forma di pazzia. Ma la vera follia del Principe non consiste nell’epilessia, bensì nella sua maniera di comportarsi con gli altri: non si difende dalla rapacità altrui, non reagisce alla violenza che subisce, non si ribella ai raggiri e ai tradimenti. Dostoevskij, spiegando a un suo amico il significato di questo suo personaggio, scrisse che desiderava in lui raffigurare «un uomo assolutamente buono», impresa che gli risultava difficoltosa perché equivaleva a scrivere un altro vangelo, a tratteggiare un nuovo ritratto di Gesù, la sua stessa «diversità», «inconcepibile» umanamente parlando.
E proprio qui sta il punto che a noi interessa: ciò che all’apparenza sembra follia, o debolezza di carattere, o labilità mentale, si rivela invece un modo inedito, più profondo, di reagire alla realtà, come spiegava Dostoevskij al suo amico (i pazzi, poi, negli anni trenta del Novecento, nell’Unione Sovietica di Stalin, saranno i dissidenti, come lo scrittore Bulgakov denunciò nel suo Il Maestro e Margherita: Gesù, in quel romanzo, è appunto definito da Ponzio Pilato come un filosofo sognatore, un malato di mente che vagheggia un utopistico progetto di vita).
In questa prospettiva, ciò che sbrigativamente e sommariamente definiamo follia umana non è sempre e comunque una condizione patologica, uno scompenso psicologico o un qualsiasi altro deficit mentale, ma un’attitudine alla ulteriorità: cioè a intercettare e ad apprezzare e a segnalare dimensioni che restano al di là di quelle che comunemente tutti percepiamo nell’immediatezza: dimensioni più profonde, affettive e spirituali, oltre che cognitive.
Pazzia è, semmai, quella che Camus, nel suo dramma Il malinteso, chiamava «la tristezza d’Europa», oggi la tristezza del mondo che misconosce il valore della fratellanza.