Le indagini del Commissario Falconara 2° puntata

Lillo Ariosto
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La vedova Lo Celso

Il campanello all’entrata sembrò agitare più del dovuto la porta in rigoroso teak di latifoglia, legittimo confine dell’appartamento in cui abitava. Filippo Falconara se ne stava in desabillé – o meglio in mutande – in attesa che la moka eruttasse i primi fumi del caffè della locale torrefazione del cavaliere Vinebra e liberasse quel nettare nero che gli era essenziale appena alzato dal letto.

Lo aveva voluto enorme quel talamo. Acquistato on line. Ordinato “matrimoniale”. Addirittura ancora più grande, “all’americana”, quasi a compensare la condizione di impenitente scapolo (aborriva il termine single). Amava quella casa nel palazzetto antico sul vecchio corso principale di Calatorre, capoluogo decaduto al centro dell’Isola, dove una volta aveva sede il governo della provincia. Amava il luogo e nonostante tutte le maledizioni che ogni giorno doveva sentire su quella “zolla buttana. Non lo avrebbe cambiato con niente altro.

Lo viveva – “da turista” – prendendo tutto quello che di buono riusciva a cogliere. L’aria fredda del mattino di inverno, quella rovente nelle torride estati, il sordo rumore del silenzio delle strade deserte di ogni stagione. Di tanto in tanto sfuggiva a quella subìta indolenza trascorrendo pomeriggi al mare, sulla costa sia nord che sud dell’Isola, o nei mattini domenicali visitando, nei due grandi centri vicini, mostre o mercatini delle pulci alla ricerca di vecchie cose.

Un altro sussulto sonoro lo distolse dalle iniziali propaggini dell’aroma di quel primo caffè della giornata. Decise che avrebbe cambiato quell’odioso cicalino del campanello alla porta. Indossò i pantaloni a quadri che teneva sulla poltrona sempre pronti all’uso, li guarnì con il maglione verde che abbinava con tutto. Non si curò neanche di guardare dallo spioncino e aprì. Sulla soglia la signora Lo Celso.

Sittantina, sua dirimpettaia, vedova. Gli occhi spiritati dalla paura e qualche sillaba che tentava di farsi strada tra le labbra tremanti.

Falconara capì che doveva agire prima di doversi trovare al telefono e chiamare una vettura di soccorso per l’ospedale. Prese la mano della poveretta, ancora in veste da camera, e la accompagnò sulla poltrona accanto al tàngeri situato all’ingresso. La vecchietta (mai fu termine più errato per quanto poi avverrà) sembrò ringraziarlo con lo sguardo. Poi iniziò a farfugliare -“Be-nia-mi-mo. Benia-mino, Beniami-no”. Falconara prese coraggio e completò con tono più deciso. “BENIAMINO”.

Continua….

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