Era stato ucciso a coltellate quattro anni fa nella sua casa nel quartiere Strata ‘a foglia: Adnan Siddique, 32 anni, pakistano, residente a Caltanissetta da anni, che aveva denunciato il racket del caporalato dei braccianti-schiavi, e il lavoro nero nelle campagne della Sicilia interna che ha uno dei suoi epicentri proprio a Caltanissetta.
Qualche giorno fa il processo di appello si è concluso con 9 sentenze di condanna di suoi connazionali, condanne pesanti, che hanno confermato la lettura di questo delitto come la punta dell’iceberg di un fenomeno inquietante, che ha riportato nel nostro territorio le condizioni barbariche di uno sfruttamento feroce che molti pensavano scomparse da tempo, almeno in questa parte del pianeta.
Ma di queste sentenze se n’è parlato pochissimo.
Adnan, non era un bracciante, aveva un lavoro stabile e un contratto regolare in un’azienda tessile nissena, era molto stimato e benvoluto dai vicini di casa, nisseni, presenti ai suoi funerali e unanimi nel raccontarne le qualità di cittadino esemplare. Al processo il Comune si è costituito parte civile, così come il MOVI, che riunisce decine di associazioni di solidarietà. Dopo il delitto centinaia di persone erano scese in piazza, insieme ai cittadini di tutte le etnie con le loro diverse bandiere, per esprimere con nettezza la propria vicinanza alle comunità di ogni parte del mondo che vivono con noi.
Questo delitto non è stato soltanto un fatto di cronaca nera e giudiziaria, ma ha posto una questione fondamentale per l’identità sociale e l’idea di sviluppo della nostra città nel mondo globalizzato in cui viviamo. E interessa tutti noi, nessuno escluso.
I poteri criminali in Sicilia sono da sempre saldamente inseriti in tutti i sistemi di sfruttamento e di speculazione, controllando strettamente gli interessi economici e il potere che ne deriva. Qui, in questa periferia del capitalismo globale, organizzazioni criminali fanno arrivare lavoratori afgani o pakistani, come quelli difesi da Adnan, per alimentare il lavoro nero con gli invisibili, tenuti nella precarietà, privati della dignità di persone e di lavoratori, intimiditi e ricattati nella sottomissione di una moderna schiavitù.
Nella nostra città, da sempre, non si uccide “senza permesso”, e i sistemi criminali di controllo del territorio sono verosimilmente interconnessi in una gerarchia di spartizione dei profitti illeciti in cui ognuno ha la sua parte e deve fare la sua parte.
Per tanto tempo non si sono analizzati questi nuovi meccanismi, non si sono individuati questi gruppi di potere, piccoli e grandi, egemoni e subalterni, intelligence e manovalanza criminale, siciliani e stranieri, nella loro mutante pervasività capace di soffocare l’economia pulita e imporre la legge della violenza su tutte le attività che possono produrre risorse utili. E che non sono “un’altra cosa” rispetto all’economia su cui vivono o non vivono le nostre comunità.
Dopo il delitto Adnan, ci sono stati altri controlli sulle aziende che si appoggiano al caporalato per reclutare e sfruttare i lavoratori, ma quante vertenze sindacali per difenderne i diritti e la dignità? Quante indagini finanziarie sui flussi e i circuiti di economie poco trasparenti?
Quali politiche per il lavoro e l’integrazione in un disegno di economia solidale, ecosostenibile, di cui questo nostro territorio potrebbe essere un campo di sperimentazione privilegiato?
Quali attività nelle scuole, che sono l’unico ambiente in cui è possibile incontrare i ragazzi immigrati e le loro famiglie e farli interagire positivamente con un lavoro capillare di mediazione culturale e linguistica che socializzi la ricchezza delle tante diversità?
A Caltanissetta i residenti non italiani sono quasi tremila, il 5,1% della popolazione totale, il 79% di loro provengono dall’Africa (23 nazionalità) e dall’Asia (18 nazionalità), in stragrande maggioranza sono di religione islamica (fonte https://www.tuttitalia.it/…/cittadini-stranieri-2023/).
Nelle scuole dell’obbligo del centro storico quasi la metà degli alunni sono figli di immigrati; e accanto ai residenti anagraficamente censiti ci sono altre centinaia di persone e di famiglie che a vario titolo abitano, vivono e lavorano nella nostra città.
Caltanissetta da almeno vent’anni è diventata una città del mondo, e la presenza tra noi di tutte queste culture, tradizioni, religioni, usi e costumi diversi potrebbe essere una ricchezza importante se riuscissimo a farle interagire, dialogare, valorizzare, senza chiusure, pregiudizi, egoismi che dividono, alimentano ostilità, che rischiano di sfociare nella violenza con conseguenze irreversibili di lacerazione del tessuto sociale ed umano della nostra comunità.
Anche nel mondo globale vengono “prima gli esseri umani”, tutti, con la loro dignità, i loro diritti che danno senso ai doveri, il loro desiderio di vita, di libertà vera, di pace, il loro sentirsi parte della famiglia umana senza privilegi e senza discriminazioni, ognuno portatore di un valore importante, ciascuno garantito dall’attenzione solidale degli altri.
Perché “nessuno si salva da solo”.
Non basta apprezzare queste parole quando a pronunciarle è Papa Francesco, l’unica autorità mondiale che ha il coraggio di spendersi per la pace nettamente, a 360° gradi: ogni “buon cristiano” dovrebbe impegnarsi a incarnarle tutti i giorni nella propria vita e qualificare su questo banco di prova la propria coerenza personale tra i valori e i comportamenti.
Adnan era un cittadino esemplare, corretto, generoso, testimone di civiltà. Caltanissetta lo ha sentito come uno di noi, non come uno straniero di passaggio, e quindi la sua memoria, se salvata dal rischio della rimozione che è sempre in agguato, potrebbe orientare la nostra volontà di sciogliere tutti i nodi che soffocano il nostro diritto ad un’economia pulita, che dia lavoro e dignità a tutti, tagliando gli artigli alla speculazione, allo sfruttamento, alla criminalità, strappando risorse e potere alle mafie vecchie e nuove.
Non basta avere preso i killer, processati e condannati, senza avere svelato gli intrecci degli interessi che hanno avuto bisogno di questo sangue per imporre la loro legge criminale. Sono gli stessi interessi e poteri che tengono in pugno il nostro presente e il futuro e che vanno smascherati e disinnescati, subito, se vogliamo respirare la libertà e mantenere aperta la strada di uno sviluppo possibile.
La giustizia ha fatto il suo corso, ora tocca alla politica e alla società civile avere il coraggio di analizzare i fenomeni, progettare le risposte di confronto e di integrazione, in tutti gli ambiti della vita associata, dall’urbanistica allo sport, dalla scuola alle tradizioni alimentari, dal dialogo interreligioso, mettendo al centro la pace, il rispetto della dignità del lavoro e la tutela dei diritti di tutti.
Va ricostruita una vita sociale in cui le persone si incontrino, condividano percorsi di vita e di lavoro, trascorrano insieme il tempo libero, dialoghino negli eventi culturali.
Per più di un secolo la nostra cultura ha pensato di sprovincializzarsi assumendo valori e stili di vita di stampo anglo-sassone, americano, spesso in modo subalterno.
Oggi potremmo dare alla nostra comunità un respiro mondiale senza gerarchie di predominio, facendo interagire le nostre identità differenti in un orizzonte di accoglienza e di rispetto reciproco di chi arriva in Europa dai continenti emergenti, con tutte le contraddizioni del loro sviluppo difficile.
Non è facile, ci mette in discussione, ci chiede un impegno complesso e il risultato positivo non è scontato.
Ma non ci sono scorciatoie per costruire la pace, non sulle carte geografiche o militari, ma nella nostra vita quotidiana, nei nostri quartieri, dove dipende veramente da noi, negli spazi e nei tempi che abbiamo.
Finché abbiamo ancora un po’ di tempo.