Papa Francesco e la rivoluzione nel linguaggio della Chiesa. La riflessione di Salvatore Di Salvo (Ucsi) tra giornalismo, fede e speranza

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Papa Francesco, nel corso del suo Magistero, ha saputo instaurare un dialogo profondo e autentico con il mondo della comunicazione, riconoscendone la profonda valenza strategica e pastorale. Fin dall’inizio del suo pontificato, ha promosso uno stile comunicativo improntato alla semplicità, alla vicinanza e alla verità, capace di raggiungere il cuore delle persone. Dal primo tweet al G7 sull’intelligenza artificiale: ecco il testamento tecnologico del pontefice più mediatico di sempre, che voleva un progresso più etico e più umano. Il silenzio non è semplice assenza della parola, ma apertura totale ad accogliere e condividere la pienezza della vita altrui. In queste giornate velate dalla tristezza e dal dolore per la morte di Papa Francesco, si comprendono maggiormente le parole e i gesti compiuti. Passando in rassegna i dodici messaggi per le altrettante Giornate mondiali delle comunicazioni sociali, emerge l’importanza della dimensione relazionale in un contesto sempre più complesso.

“Dobbiamo recuperare – scriveva nel 2014 nel suo primo messaggio – un certo senso di lentezza e di calma. Questo richiede tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare. Abbiamo anche bisogno di essere pazienti se vogliamo capire chi è diverso da noi: la persona esprime pienamente se stessa non quando è semplicemente tollerata, ma quando sa di essere davvero accolta”.

Ripercorrere il pontificato di Francesco, cercare di tracciarne il bilancio, è un’intenzione comprensibile, ma siccome il papa diceva che la sua priorità era quella di avviare processi, mi sembra più interessante stare in questo tracciato e cercare di cogliere quelli da lui avviati. Ci sono anche processi rivoluzionari, in particolare relativi al linguaggio: ha portato la comunicazione pontificia nel terzo millennio, il tempo dei social media, cioè un tempo nel quale la comunicazione è diretta, le mediazioni contano ma molto di meno rispetto a prima. Così il linguaggio “ingessato”, dottrinale, misurato, cattedratico è stato rivoluzionato, è diventato linguaggio di prossimità, sovente anche colloquiale, veicolato anche tramite interviste non dottrinalmente verificate, ma capaci di mettere in contatto diretto il vescovo di Roma con il suo uditorio, in questi casi esterno alla Chiesa. Questo linguaggio è stato anche poetico, così da potersi rivolgere a tutti, non soltanto ai fedeli. A cavallo tra rivoluzione e riforma c’è quindi l’esercizio del ministero petrino, non più “alto”, lontano, separato, distanziato da noi, ma un ministero che si è trasferito accanto a noi, è stato esercitato “in mezzo al gregge”, senza ori, alamari, mantelline rosse, il colore degli imperatori romani. Questo tipo di esercizio del ministero aveva bisogno di un linguaggio nuovo, e aveva bisogno di una vicinanza per rendere visibile quella Chiesa ospedale da campoChiesa in uscita, delle periferie, degli ultimi della quale ha parlato dai suoi primi giorni. 

Salvatore Di Salvo

Segretario Nazionale UCSI (Unione Cattolica Stampa Italiana)

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