Caltanissettese, architetto, progettista, professore, maestro e storico dell’architettura siciliana.
Non c’è giorno che non ci si imbatta nella espressione “fuga di cervelli”. Le giovani generazioni ci hanno abituato a una mobilità lavorativa e di vita diretta verso i più svariati luoghi del mondo. In Italia e all’estero si diffondono le migliori intelligenze natìe ma il fenomeno non è nuovo.
Anche agli inizi del Novecento, Caltanissetta ha visto emigrare grandi menti che hanno segnato la storia nei loro rispettivi àmbiti. Fra questi Enrico Calandra. Uno dei massimi maestri della storia dell’architettura e soprattutto di quella siciliana.
Enrico Calandra nasce a Caltanissetta il 10 luglio 1877. Conseguita la maturità, nel 1901 si laurea presso la scuola di applicazione per Ingegneri di Palermo. E’ allievo di Ernesto Basile e di Antonio Zanca.
Rifiuta nel 1901, da vincitore di concorso, il posto di ingegnere delle Ferrovie Sicule, per dedicarsi con più ampia libertà di espressione alla redazione di uno studio “più articolato e complesso, per una rete ferroviaria a trazione elettrica per le Ferrovie del Bosco Etneo”.
E’ assistente all’Esposizione Regionale di Palermo del 1902. Concorre per il Pensionato Artistico Nazionale di Architettura e per la biblioteca Nazionale di Firenze.
Collabora con lo studio dell’architetto Ernesto Armò con il quale si dedica all’attività progettuale. Nei ricordi di alcuni suoi allievi (consacrati nella pubblicazione “Enrico Calandra. Ritratto di un architetto”) si mostra votato alla affermazione professionale ma con una inclinazione, se non dedizione, verso l’idea di “realizzare di una sintesi tra architettura del passato e imprescindibile manifestazione delle esigenze che la vita moderna reclama”.
Il progetto-studio redatto tra il 1902 e 1904 viene presentato con un apposito volume nel 1905, dove Calandra – mostrando le proprie doti di cultore della storia dell’architettura ma con uno sguardo al futuro – afferma “Si è accresciuta la attrattiva della ferrovia col dotarla di fabbricati viaggiatori per le stazioni ed anche per le fermate, che si allontanassero dai tipi comuni. Trattandosi di ferrovie elettriche d’istituzione eminentemente moderna, si è ispirata la forma e la decorazione ad una certa novità e libertà di stile, che mentre allo esterno manifestasse con sano criterio estetico la speciale destinazione degli edifici, mercè la evidente mostra dei locali destinati al pubblico, presentasse nella disposizione, forma e dimensioni degli ambienti la maggiore comodità dei viaggiatori per tutte le classi…Si è data perciò maggiore importanza i vestiboli e alle tettoie comuni… con ambienti destinati ad uso di bar o ristornati e rivendite di tabacchi, di modo da offrire un comfort adeguato alle odierne e alle abitudini attuali”.
Nel 1907 Antonio Zanca lo chiama come assistente alla cattedra di Disegno d’ornato e Architettura elementare presso la Facoltà di Scienze Fisiche e Matematiche dell’Università di Messina.
Affianca alla sua attività accademica quella di progettazione della sede del Circolo Artistico e per i Bagni Vittoria a Messina e, insieme a Zanca, per la casina del principe di Pietratagliata nei boschi di Caronia.
La carriera di Calandra sembra procedere in uno al talento che è in lui. Il terremoto del 28 dicembre del 1908 interrompe però bruscamente la strada intrapresa, segnando profondamente la vita professionale e umana di Calandra. L’evento lo coglie a Palermo dove si è recato per festeggiare il Natale in famiglia.
Rientra immediatamente a Messina con l’intenzione di prestare soccorso e aiuto. Il panorama che gli si presenta è drammatico. La sua casa posta di fronte a Santa Maria delle Trombe, lungo la via dei Monasteri, non esiste più. Anche la casa di campagna dove conserva i materiali di lavoro e molti dei suoi disegni è stata cancellata.
Scrive alla moglie Dina: “Se tu sapessi che valle di dolore e di sterminio è questa città…”. Riesce a salvare alcuni taccuini con schizzi e bozzetti.
Negli anni seguenti al terremoto Calandra e il suo mentore Zanca vengono assegnati momentaneamente alla Università di Palermo. Vi rimarranno sino al 1915, quando riaprirà l’Università di Messina.
Nel 1910, nonostante molti lavori e progetti didattici di Calandra siano andati perduti durante il sisma, Zanca spinge Calandra a partecipare al concorso bandito dalla Università di Cagliari per la cattedra di Disegno Ornato e Architettura elementare.
L’iter del concorso si presenta però travagliato. Calandra dovrebbe essere il vincitore ma la proclamazione viene annullata su ricorso di un altro pretendente. Il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione annulla, per vizio di forma, il concorso che viene nuovamente bandito nel 1911.
I candidati sono numerosi e molto preparati. Calandra, avendo perso molti dei suoi progetti, deve – su richiesta della Commissione esaminatrice – sottoporsi a una prova grafica (comprovante l’autenticità degli elaborati) e a una dissertazione orale in assenza dei titoli e dei disegni andati perduti nel terremoto. Nel 1912 consegue la cattedra universitaria.
Con l’ingegnere Caffarelli collabora alla redazione del progetto per i “Grandi Magazzini Peloritani Giacomo Costa” e per la “Villa Falzea” nella frazione di Mortelle a ovest di Capo Peloro. In essi “disegno e composizione dei volumi sono oggetto di studi sempre più approfonditi con l’obiettivo di mettere a punto un linguaggio espressivo adeguato ad una nuova contemporaneità, capace di riassumere e rielaborare in forme nuove temi e modi della tradizione”.
Calandra, nei suoi progetti e nei suoi scritti, si rivela un filosofo della tradizione architettonica siciliana. La sua attività svela la conoscenza e la consapevolezza di un passato che Calandra riscopre progressivamente.
Erme, telamoni, figure alate, partiti e motivi decorativi e cromatici diventano sempre più presenti nei suoi disegni e nelle sue architetture. I due progetti, presentati con Camillo Autore, per la nuova sede del Banco di Sicilia di Siracusa attingono alla architettura “siciliana vermexiana (motto in onore di Vermexio) del principio del ‘600 e alla greca-siracusana modernizzata (motto Corda et ala), generando un caldo sentimento del barocco”.
Nel 1912 partecipa al concorso per la stazione di Milano, che sembra segnare una evoluzione del linguaggio proprio – rispetto a quello di Ernesto Basile suo maestro – verso una architettura maggiormente influenzata dalla scuola viennese di Olbrich, Wagner e Hoffmann.
Dal 1913 al 1926 è architetto della Regia Deputazione ai Restauri del Duomo di Monreale. Diventa il principale referente cui si rivolgono istituzioni diverse nel campo del restauro e della storia dell’architettura medievale.
Tra il 1926 e 1927 viene interpellato dall’arcivescovo di Siracusa, monsignor Giacomo Carabelli e dal vescovo di Tropea, monsignore Felice Cribellati, per i delicati lavori di restauro delle due cattedrali.
A Siracusa viene chiamato dall’arcivescovo per un suo autorevole parere sui lavori di restauro del duomo condotti da Paolo Orsi e Sebastiano Agati. Esprime timori sulla rimozione della decorazione interna di epoca barocca che avrebbe potuto pregiudicare lo strato sottostante di epoca classica. Il suo intento rimane quello di preservare il tempio nel suo spirito “più profondo” che “dalla forza titanica del colosso pagano…. raggiunga la intimità pura e gentile dell’arte bizantino-cristiana”.
Nel 1930 viene chiamato a Roma, per interessamento di Gustavo Giovannoni, per assumere l’incarico di docente di Caratteri degli edifici presso la Scuola Superiore di Architettura, della quale – a seguito delle dimissioni di Piacentini – diverrà preside dal 1944 fino alla sua morte.
Il suo sforzo, come ebbe a proclamare nel suo discorso di insediamento, sarà diretto a “non risparmiare nulla nel nuovo campo, con l’unico timore di non potermi sentire sicuro di essere aderente alla vita che s’è venuta determinando nella nostra civiltà contemporanea”.
A partire dal 1936, riprende le corrispondenze con i numerosi allievi rimasti in Sicilia. Tutti gli riconoscono il ruolo di guida nella storia dell’arte monumentale, dal momento che nessuno può avere la visione di insieme da lui maturata durante i suoi viaggi tra oriente e occidente dell’Isola. Nessuno ha la sua capacità di leggere le architetture “unendo agli strumenti del mestiere di architetto i metodi dello storico dell’arte”.
Tra la fine del 1937 e la primavera del 1938 ritorna in Sicilia. Compie numerosi sopralluoghi e tiene diverse affollatissime conferenze a Palermo e a Messina.
Nel 1938 Laterza pubblica la sua “Breve storia della architettura in Sicilia”. E’ una mirabile sintesi dove Calandra si mostra capace di cogliere i caratteri dell’architettura siciliana attraverso i secoli, dall’antichità al Novecento, improntata a una visione storiografica ancora oggi attuale che, a quasi novanta anni di distanza dalla sua pubblicazione, rimane un punto di partenza ineludibile e insuperato per le ricerche sull’architettura dell’Isola.
Eppure si tratta di un testo che, almeno secondo Calandra, non si sarebbe mai dovuto leggere. Non era infatti intenzione dell’autore darlo alle stampe. Nell’esplorazione dei documenti, manoscritti, bozze, appunti, lettere, che raccontano la singolare vicenda di un testo sottratto al suo autore per essere pubblicato, affiorano i volti di diversi personaggi. Adolfo Omodeo, Benedetto Croce, Gustavo Giovannoni, attori a diverso titolo che conducono, attraverso un percorso inatteso, nei luoghi in cui nei primi decenni del Novecento si ripensano il ruolo della storia e il mestiere di storico.
Nell’opera affiora la rivendicazione – non tanto nascosta – di Calandra su una autonomia disciplinare della storia dell’architettura, distinta e indipendente dal campo consolidato della storia dell’arte.
Nel 1939, con i suoi allievi, mette in cantiere un nuovo viaggio di studio. Le mete concordate sono Castelvetrano, Sciacca, Agrigento. A partire dal 1940 iniziano ad essere pubblicati i risultati dei suoi studi e delle sue ricerche sulla storia dell’architettura siciliana.
La scuola di Calandra produce “Chiese siciliane del periodo normanno” di Francesco Basile e “Il duomo di Cefalù” di Giuseppe Samonà.
Nel recensire le opere dei suoi allievi Calandra rivendica l’origine delle ricerche negli anni di lavoro comune a Messina, dove ha preso forma un nuovo modo di guardare all’architettura, perché “viste dall’angolo messinese invece che dall’angolo palermitano..le vicende assumevano accenti diversi… ma anche perché lo sguardo sull’architettura della storia vede ciò che altri, privi degli strumenti del mestiere, non possono vedere”.
Come è possibile constatare particolarmente indicativa della sua attività si rivelerà l’influenza sui suoi allievi siciliani, eterogenei per formazione, inclinazioni ed età, ma omogenei nell’indicare nel maestro il punto di riferimento comune dello sviluppo delle loro attività.
E’ un ultimo ma lungo impegno condotto con una dedizione – se non fede – nella sua idea della storia dell’architettura. Muore a Roma il 5 marzo 1946.
Di Calandra, a Caltanissetta – per quanto ci è dato conoscere – nessuna via, nessuna opera che lo ricordi. Nessun segno.
Su Enrico Calandra ha pesato un lungo silenzio storiografico. Le memorie dei suoi allievi – tra questi Giuseppe Samonà, Lina Bo, Bruno Zevi – ci consegnano il ritratto di un maestro in anni che di maestri sono assai poveri.
Attraverso lettere, scritti e disegni emersi dall’archivio dell’architetto, ci si restituisce – in un’unica immagine – i molti volti di Enrico Calandra: quello del giovane architetto alla ricerca della modernità, quello del maestro amatissimo dagli allievi più diversi, quello dello storico dell’architettura impegnato nella definizione dei fondamenti di una disciplina che da allora appartiene agli architetti.
Le tracce di una storia individuale e familiare che ha origine nella Sicilia di fine Ottocento ci conducono lontano verso una storia dell’architettura – e non solo – che racconta l’Italia negli anni difficili delle guerre mondiali e del regime fascista.
Solo nel 2010 i suoi scritti, molti dei quali inediti (poiché nonostante le sollecitazioni di allievi e amici, la ritrosia del Calandra lo induceva a pubblicare poco, solo talvolta su qualche rivista), sono stati raccolti in volume da Paola Barbera e Matteo Ianniello (cui molto si è attinto per questo testo) grazie al figlio professore Roberto Calandra.






