Una riflessione del Prof. Tonino Calà:
Ad una certa età si capisce che non è necessario ricevere l’approvazione affettuosa degli altri. Come nella scena di un film dove un padre, che era anche re, chiedeva insistentemente al suo giovane figlio un bacio sulla guancia. E il giovane figlio gli rispondeva: “ma i baci ai padri e alle madri si danno quando i figli sono ragazzi e non sono ancora degli adulti!”.
È vero. Non solo. I baci è bene darli quando i genitori sono vivi. Quando non ci sono più, i baci non si possono dare. In tante cose gli esseri umani sono puerili, quando da adulti pretendono l’affetto genitoriale, pensando invece di essere ancora dei bambini. Poi penso che tutti noi, adulti e bambini, abbiamo bisogno e desiderio di affetto.
Mi sembra evidente, anche per quelli che si credono autosufficienti e non lo sono. Siamo umani. Tutti desideriamo abbracci, baci e carezze e negarlo sarebbe da bugiardi. Non mi sembra una scoperta scientifica sensazionale. Ma molti non li sanno dare gli abbracci, i baci e le carezze, timorosi come sono di mettere in opera la propria presunta fragilità umana.
Per me siamo umani e nel bacio, nell’abbraccio e nelle carezze noi realizziamo la nostra umanità, sapendo esprimere ciò che il cuore ci suggerisce per sentirci bene nella nostra pelle.
Non a tutti e non con tutti! Non abbiate paura e non lesinate l’affetto, soprattutto datelo a coloro che ne hanno bisogno. Si scrivono versi poetici anche per dare, con sincera gratuità, affetto e consolazione agli altri. Non è cosa da poco, in un mondo violento e narcisista dove manca il calore umano.
L’uomo ha bisogno di credere in qualcosa per potere vivere, per continuare a vivere, trovando una fede che lo faccia sentire vivo. Poi fa esperienza di vicende dolorose e drammatiche e vorrebbe rinunciare a vivere e alla vita. Con tale scoperta si pensa che la vita sia insensata e che non ha alcun valore. Invece, nonostante la consapevolezza della disillusione esistenziale si desidera vivere, anche in condizioni drammatiche.
Questo accade perché non c’è alcuna ragionevole certezza che la vita sia infinita e che possa durare per l’eternità. E, soprattutto, per stare bene mentre si è in vita! Ecco perché l’uomo desidera e diventa schiavo del desiderio e della paura, vivendo comunque e in qualsiasi condizione esistenziale, anche provando dolori atroci.
Penso ai prigionieri nei campi di sterminio, dove ai deportati veniva tolta l’identità e l’appartenenza al genere umano. Penso ai malati terminali di cancro e al buio oscuro che li attraversa, nella loro solitudine di sentirsi puniti dal cieco destino.
La filosofia orientale ci ha spiegato che noi esseri umani creiamo le condizioni della nostra sofferenza, desiderando e provando paura. La volontaria rinuncia o l’accettazione dei limiti o la realizzazione possibile dei desideri ci fa umani, sapendo che anche la paura è stata creata da noi.
Arthur Schopenhauer aveva intuito che l’uomo è schiavo di sé stesso, prigioniero dei suoi desideri e delle sue paure. E approdava così alla “nolontà”, una forma di ascesi che libera l’uomo dalle illusioni del mondo e lo redime dal suo dolore personale. Una pratica difficile che richiede un grande esercizio quotidiano! Una pratica evolutiva e selettiva che toglie ed elimina, bonifica e rafforza la soggettività.
Allora la vita è materia sostanziata di solo pensiero concreto: “sono qui e mi può bastare”? La consapevolezza della nostra mortalità innata che non lascia spazio al sentimento, all’immaginazione, all’alterità creata e creante, al senso profondo dell’indicibile che non può essere solamente il nascere, il vivere e il morire? Forse che siamo l’Uno che scopre il mistero del grande Altro, della parola-verbo-logos che ci fa sentire e che non ci fa riflettere, pur nella consapevolezza della domanda: chi siamo e verso dove andiamo? Sospesi nel dubbio della vita che pungola la nostra anima?
Per le cose concrete della vita ci vuole accortezza perché sono delle res che si possono capire, intuire e accettare. Lo stesso non si può fare con il mistero oltremondano dell’ulteriorità che ci spinge a muoverci, a ricercare il senso del nostro vivere.
Anche in assenza dei riconoscimenti sociali, anche se fosse mancante la presenza dell’altro, possiamo ritrovare l’anelito del nascere e del rinascere: sono qui con la mia voce, con il mio volto, con la mia presenza, fino a quando non arriverà la mia fine.
Per questo siamo umani, esseri viventi che parliamo, che diciamo parole salvifiche d’amore che fanno dell’esistenza un’opera d’arte, con e nella vita, e oltre la morte.
Tonino Calà
