“Armiamo la pace” risemantizzare il lessico bellico. Una riflessione di Don Massimo Naro

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«Armiamo la pace» è il titolo del convegno – organizzato presso la Facoltà Teologica di Sicilia per domani, mercoledì 30 aprile sul contributo che il dialogo interreligioso può offrire per far maturare una maggiore tensione comune in favore della pace in un mondo lacerato dalle guerre.

Espressione che, di primo acchito, suona ambigua, specialmente in questi giorni in cui si parla di piani di riarmo europeo e di difesa armata nazionale, finalizzati – secondo le dichiarazioni di chi li promuove – a garantire la pace o almeno a scoraggiare la guerra, in ossequio al detto si vis pacem para bellum. O piuttosto, come avrebbe forse pensato papa Francesco, per ridare innanzitutto fiato all’industria bellica, che di quell’antico detto ha fatto un brand brevettato già sul finire dell’Ottocento da Georg Luger, l’ingegnere austriaco che inventò la famosa pistola poi in dotazione di tanti eserciti (per inciso: il detto latino è tratto dall’Epitoma rei militaris di Publius Flavius Vegetius Renatus, un vir illustris, un notabile romano del V sec. d.C., che probabilmente fu cristiano – Renatus per questo: cioè battezzato –, dato che nel secondo libro del suo Epitoma riporta il sacramentum militare, ossia il giuramento su Dio, sul Cristo e sullo Spirito Santo che gli ufficiali imperiali facevano ormai dopo l’editto di Milano).

Il convegno ha, appunto, lo scopo di segnalare e di smascherare tale ambiguità. Ma anche di decifrarla, di ponderarne i vari sensi possibili, così sottoponendola al lavorio della risemantizzazione. E di fare tutto ciò con un’intenzione precipuamente teologica. La qual cosa è impresa ardua, a motivo dell’ipoteca violenta che grava su molte tradizioni religiose e sul loro millenario fronteggiarsi conflittuale.

Jan Assmann, insigne egittologo, con i suoi studi niente affatto superficiali, ha spiegato negli scorsi decenni in che senso le religioni, le tre monoteistiche in particolare, sarebbero foriere di violenza bellica, fomentando guerre combattute in nome di Dio. Confrontandosi criticamente con la teoria della «distinzione mosaica» tra vero e falso, argomentata da Assmann, distinzione che starebbe all’origine della violenza che la pretesa monoteistica finirebbe per causare, Joseph Ratzinger ha dal canto suo ricordato che la verità annunciata al mondo nella rivelazione biblica è che «Dio è amore» (1Gv 4,8): «Verità e amore sono identici. Questa affermazione – se ne si coglie tutto quanto essa rivendica – è la più alta garanzia della tolleranza», ovverosia «di un rapporto con la verità, la cui unica arma è essa stessa e quindi l’amore». Di conseguenza essa impone di resistere inerme, non violentemente, all’intolleranza altrui.

Mi pare un’indicazione fondamentale per la teologia del dialogo interreligioso. La quale è incardinata sul tentativo di risemantizzare parole conflittuali, la più terribile delle quali – assieme a guerra – è «arma»: per Ratzinger la verità è amore, e l’amore è in definitiva l’arma vincente nel dialogo interreligioso, che per suo statuto è del tutto disarmato e disarmante.

Risemantizzare le parole vuol dire non esclusivamente dotarle di inediti significati, ma recuperarne e precisarne i significati originari. Ci si può accorgere, così, che la stessa parola “dialogo” rimane controversa, fino a far temere che in essa si celi il tarlo dell’incoerenza: per un verso prospetta un amichevole colloquio e per altro verso può dare adito alla polemica. Come accade quando si traduce il termine greco nel suo corrispettivo latino: il dialogo – inteso e praticato come proiezione di sé e del proprio mondo in un altro orizzonte concettuale, in un’altra tradizione dottrinale, in un’altra sensibilità culturale, in un altro universo valoriale – rischia, talvolta, di cambiare i propri connotati, diventando diverbio.

Finché non arriviamo a puntualizzare che il latino diverbium – che l’Olivetti e il Campanini-Carboni rendono come “dialogo” – traduce il greco dilogía (che vuol dire: botta e risposta o doppia parola, e che nel Nuovo Testamento diventa pure impostura, menzogna) e non diálogos. Se diálogos esprime la capacità mediatrice della parola e del ragionamento, che diventano quindi strumenti per comprendere e apprezzare gli altri, una specie di ponte che permette l’attraversamento dagli uni agli altri, diverbium suona invece con un timbro polemico e finisce per significare dissidio, alterco, conflitto. La parola non è più sostenuta dal ragionamento e diventa impenetrabile, si inspessisce e appesantisce: crolla il ponte e le sue macerie si compattano in un muro invalicabile, rinforzato per giunta da spinosi cavalli di Frisia. Per rivendicare al dialogo la sua valenza positiva, occorre continuamente compiere la risemantizzazione del diverbio, senza appiattirsi al suo tenore letterale.

È ciò che s’intende quando si parla delle armi del dialogo. Espressione, questa, pronunciata spesso da papa Francesco, a partire dal discorso tenuto nel ricevere il Premio Carlo Magno (6 maggio 2016): «Se c’è una parola che dobbiamo ripetere fino a stancarci è questa: dialogo. La pace sarà duratura nella misura in cui armiamo i nostri figli con le armi del dialogo, insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro e della negoziazione. In tal modo potremo lasciare loro in eredità una cultura che sappia delineare strategie non di morte ma di vita, non di esclusione ma di integrazione. Questa cultura del dialogo aiuterà ad inculcare nelle giovani generazioni un modo di risolvere i conflitti diverso da quello a cui li stiamo abituando. Oggi urge poter realizzare coalizioni non più solamente militari o economiche ma culturali, educative, filosofiche, religiose. Armiamo la nostra gente con la cultura del dialogo e dell’incontro».

In questi termini, il papa che ci ha da poco lasciati non faceva altro che risemantizzare il lessico bellico – armarsi, attaccare battaglia, disegnare strategie, stipulare coalizioni – per indicare nel dialogo l’arma adatta a debellare la guerra in vista di una pacifica convivenza.

Massimo Naro

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