BIDEN E HARRIS, OSTAGGI DELL’AGENDA ESTERA

Andrea Alcamisi
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Nel luogo del quasi martirio – Butler, in Pennsylvania – San Trump ritornerà a breve, per spezzare il pane della discordia e per bere il vino dell’odio. Il tycoon, coraggioso pescatore di patrioti, persegue, dunque, nella campagna di evangelizzazione di un elettorato ormai pienamente imbonito dallo slogan della grande America.

Intanto, l’ottuagenario Biden è stato deposto dai suoi compagni democratici senza spargimenti di sangue. La catabasi del vegliardo Presidente suggerisce più di una simpatica tenerezza per le dinamiche di esclusione dalla corsa elettorale.

Sempre più dipinto come un redivivo Charlot piuttosto che come il capo di una superpotenza economica e militare, Biden lascia la Casa Bianca dopo quattro anni, senza essere riuscito a tacciare l’ombra di Trump, onnipresente nei momenti cruciali della politica statunitense: l’Afghanistan, la concorrenza economica cinese, la guerra in Ucraina e, per ultimo, la questione palestinese.

Un Presidente, dunque, che ha perso il consenso – e la fiducia dei suoi accoliti – negli affari esteri come il suo predecessore Johnson nel 1968 a causa dell’Offensiva del Tet, durante la guerra del Vietnam.

Nel frattempo, il sogno americano sta diventando, però, un incubo, per mezzo delle orde trumpiane che evocano, per le elezioni di novembre, uno scontro esiziale tra il bene e il male.

I Democratici proveranno, perciò, a guastare il trionfo del nazi-evangelismo, ponendo in lizza la vicepresidente di Biden, Kamala Harris. Una scelta dettata dall’urgenza di recuperare il terreno della competizione elettorale, catalizzato fino ad ora dalla rappresentazione di un potere autocratico che si compiace di far uso della violenza per adescare il consenso.

Per quanto, però, la candidata Harris abbia ricevuto l’immediato sostegno delle più importanti famiglie progressiste statunitensi, i Clinton e gli Obama, la sua discesa paradossalmente nasce debole per almeno due ragioni.

La prima, l’essere stata indicata attraverso un processo di selezione verticale che di certo non appartiene alla tradizione democratica. La seconda, l’ingombrante fantasma di Biden, il cui tentativo di smarcarsi dal fallimento ne rimarca fortemente la complicità.

Infatti, la campagna elettorale statunitense concederà la vittoria a quel candidato che saprà convincere sulla postura statunitense in Medio Oriente. Gaza decreterà il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America. E quel birbone di Netanyahu sa bene che il destino militare di Israele è appeso alle sorti politiche del super alleato. L’occasione del suo soggiorno oltreoceano, fuori dalla narrazione retorica, non ammette errori di valutazione: risorse finanziarie e armi per proseguire, fino al termine della corsa elettorale, l’aggressione territoriale e poi lo strappo di accordi per salvare il più possibile prestigio e onore.

Sarà, certo, da capire, in che modo reagirà il successore di Biden alla sentenza del Tribunale Internazionale dell’Aja, per mezzo della quale lo Stato di Israele è stato giudicato reo di promuovere una politica di apartheid attraverso le forzate requisizioni territoriali e l’installazione di colonie in terra palestinese.

Non da ultimo, c’è anche da chiarire, in tempi assai risicati, la sostanza dell’agenda estera della Harris. Al netto dei suoi mugugni tardivi a proposito dell’appoggio militare degli U.S.A. all’operazione israeliana speciale di putiniana memoria, la ex procuratrice fa fatica ad abiurare al mantra neoimperialista, marchio della casata democratica in vigore dall’era di Clinton: più capitale per rilanciare il primato americano nel mondo.

Ciò che non può dirsi democrazia.

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