Il miracolo del giudice Rosario Livatino

Roberto Mistretta
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di ROBERTO MISTRETTA

C’è tanto bisogno di credere che magari può essere di conforto a chi combatte ogni giorno contro il male (anche quello fisico).

Elena Canale Valdetara l’ho sentita l’ultima volta ad agosto 2023, quando intervenne in diretta telefonica ad  Ostuni,  del Teatro Garden di Cala di Rosa Marina.

L’iniziativa era organizzata da Vito Plantamura, consigliere Co. V. CA. con delega alla Cultura. Con lui e con il giudice Angelo Cerulo di Cassazione con cui dialogammo dell’esemplare vissuto di Rosario Livatino.

In diretta telefonica intervenne anche il cardinale Francesco Montenegro già vescovo di Agrigento, il giudice Ottavio Sferlazza, di turno quel triste giorno 21 settembre 1990 era presente con me e appunto anche Elena Canale Valdetara, guarita da un tumore maligno.

Intervenne anche di presenza il vescovo di Brindisi-Ostuni, Giovanni Intini, e don Franco Blasi, presidente IDSC della Diocesi di Brindisi-Ostuni.

L’esperienza di Elena è raccontata in un capitolo del mio libro su Rosario Livatino, da cui questo articolo è tratto

ROSARIO LIVATINO MI ANNUNCIÒ LA GUARIGIONE DA UN TUMORE MALIGNO MA QUANDO LO SOGNAI NEPPURE LO CONOSCEVO.

Tra le testimonianze che hanno fatto emergere la straordinarietà della figura del giudice Rosario Livatino, di cui lo scorso 29 ottobre la Chiesa ne celebra la festa a seguito della sua beatificazione, un posto a parte lo merita la signora Elena Canale Valdetara, oggi più che settantenne, colpita nella primavera del 1993 da un tumore maligno e a cui apparve in sogno il giudice di Canicattì quando ancora lei neppure ne conosceva le fattezze. Nel sogno la signora vide un giovane dal volto pulito con indosso una tunica che le annunciò: “La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini”. 

Trascorsero due anni prima che Elena identificasse tale figura onirica col giudice Rosario Livatino, assassinato a soli 37 anni, il 21 settembre 1990, da quattro giovani della stidda. Fu allora che rese pubblica la sua storia.

Eccola.

Il marito, Giovanni Canale di origini siciliane, è geometra e si occupa di coltivazioni biologiche. Lei è insegnante. Hanno due figlie: Cecilia e Chiara, la maggiore. Sono anche genitori di due figli adottivi: Simona, una ragazza down e Francesco, un bimbo affetto da focomelia totale.

Il 15 novembre del 1993, ammalata di tumore da sei mesi, Elena fa quel sogno talmente vivido che al risveglio lo ricorda perfettamente e ne scrive. 

Alla signora i medici hanno raccomandato di ricoverarsi senza altri indugi per sottoporsi a un ciclo di chemioterapia associata alla radioterapia, all’epoca ancora in fase sperimentale. Elena però ha paura. I medici le danno il 50% di probabilità di sopravvivere al ciclo di chemioterapia, ma non sarà più autosufficiente. È affetta dal morbo di Hodgkin, un tumore maligno che aggredisce il sistema linfatico. Se non si sottopone alla chemioterapia, i medici le preannunciano che avrà altri sei mesi di autosufficienza e al massimo un anno e mezzo di vita.

Elena è di fronte a una scelta drammatica: sottoporsi al ciclo di terapia antitumore e perdere da subito l’autosufficienza, oppure continuare a occuparsi dei suoi figli, in particolare di Simona e del piccolo Francesco di neppure cinque anni, privo di braccia e gambe?  Come avrebbero fatto con una mamma incapace di badare perfino a se stessa?

 Elena a quel tempo sa poco o nulla del giudice Rosario Angelo Livatino e quando lo sogna, nella notte tra il 14 e il 15 novembre 1993, ignora chi sia quel giovane. Tuttavia quel sogno le dà un coraggio che non sapeva di avere.  I mesi passano, il tumore progredisce, ma lei si affida totalmente alla Provvidenza per non far venire meno la sua presenza in casa. Sente che è la cosa giusta da fare, tuttavia perde peso a vista d’occhio.

Nel 1995 pesa appena 38 chili. Uno scheletro che cammina. Le ghiandole linfatiche sono gonfie e turgide, visibilissime. Le circondano il collo esilissimo come una collana. Premono sotto il diaframma. Le comprimono l’aorta.

Il tumore entra nella fase terminale. Elena non può più rimandare il suo appuntamento con il ricovero ospedaliero. La situazione clinica è compromessa.  

Il 21 settembre del 1995, nel quinto anniversario dell’assassinio del giudice, nell’inserto settimanale del Corriere della sera si parla di Rosario Livatino, magistrato impegnato in prima linea contro la mafia e uomo di profonda fede cristiana negli atti e nei fatti. Si ipotizza di dare avvio a un processo di beatificazione. Sembra un’utopia ma diventerà realtà il 9 maggio 2021.

Quell’articolo così si concludeva: “Si attende anche un segno dal cielo”.

A corredo di quell’articolo del 1995 ci sono le foto del giudice. Elena lo legge, guarda le foto e il suo cuore si ferma. Lo riconosce. È lui che le è apparso in sogno due anni prima. Non era un sacerdote come Elena aveva sempre creduto. Era un giudice con la toga.

“Capii in quel momento che c’era un disegno più grande di noi anche nella mia malattia. E mi furono chiare anche le parole del giudice: La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini. Era arrivato il momento di ricoverarmi. Approfondendo la lettura e la conoscenza del giudice, mi fu chiaro che c’era un significato nella mia malattia. Ne ebbi immediata consapevolezza: Rosario Livatino voleva parlare al mondo attraverso il mio tumore.  Non potevo più rimandare. Se quella era la volontà del cielo e io ero lo strumento per testimoniare la santità di quel giudice dagli occhi buoni, avrei acconsentito al ricovero, nonostante la mia paura. Quell’episodio, insomma, mi diede la forza per fare quello che fino ad allora avevo rimandato. E nella testa continuavano a risuonarmi le sue parole: La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini.

Mi ricoverai al Policlinico di Pavia dove mi fecero la biopsia a una ghiandola prelevata dal collo, mentre prima mi ero sottoposta soltanto all’ago-aspirazione che non attestava al 100% la malattia. Quindi fui sottoposta a biopsia del midollo osseo e gli esami confermarono il male, giunto ormai al terzo stadio. Mi sottoposero a un primo ciclo di chemioterapia, ma alla seconda applicazione fui colta da un violento shock anafilattico che mi portò in punto di morte”.

Quando arriva il Natale di quel 1995, mentre nelle famiglie si allestisce il presepe e si addobba l’albero, Elena è quasi in fin di vita.

“All’inizio del 1996 alcuni amici, che non si rassegnavano alla mia morte, si adoperarono per raccogliere i fondi necessari ad affidarmi alle cure del prof. Veronesi nel Centro Europeo di oncologia che era stato appena aperto a Milano. All’epoca era privato e bisognava pagare tutto. Dal terzo stadio non si torna più indietro, però si può alleviare la sofferenza del paziente e quindi i medici provarono a sottopormi a una chemioterapia più leggera. Il tumore però continuava a progredire e dal terzo stadio A passai al terzo stadio B, immediatamente prima del quarto stadio, che coincide con la morte. Arriviamo ad aprile del 1996. Devono ripetermi tutti gli esami per essere sottoposta ad agosto a quaranta giorni di radioterapia in tutto il corpo, perché il tumore ormai era esteso dappertutto. Un’ultima disperata carta della scienza medica che viene usata con i malati terminali. Io ero una di loro. Avevo paura.

Presi tempo, e quella radioterapia non l’ho mai fatta. Non volevo condannarmi a una morte dolorosa, ed espressi il mio ultimo desiderio: partecipare al pellegrinaggio in Terrasanta organizzato da Famiglia Cristiana. Mi restavano pochi mesi di vita. Mio marito acconsentì. Partii in nave con i miei figli, Francesco e Cecilia. Prima della mia morte che sentivo ormai imminente, volevo lasciare un ricordo gioioso della loro mamma, in particolare a Francesco, il figlio più piccolo. Volevo portarlo nei luoghi dove aveva vissuto Gesù, per non lasciargli soltanto il ricordo di una mamma ammalata.

Quando tornammo dalla Terrasanta qualcosa in me era cambiato.  Dissi ai medici che non mi sarei sottoposta alla radioterapia se prima non mi avessero fatto nuovi esami di controllo. I medici si opposero: Signora, non ha senso aspettare ancora. Rifaremo tutti gli esami dopo la radioterapia. Cosa si aspetta di trovare adesso?

Io ero una roccia. No, voglio farli prima.

Quindi presi appuntamento per il 20 settembre 1996, il giorno prima del sesto anniversario dell’assassinio del giudice Rosario Livatino. Ricordo la data perché il professore che mi aveva in cura ritornava dagli Stati Uniti e mi diede appuntamento proprio quel giorno. A seguito di quella visita, venne fuori la totale remissione alla malattia. Il professore era incredulo, ma io ero perfettamente guarita senza fare alcuna cura. Anche le ghiandole linfatiche erano rientrate nella loro grandezza naturale. Nei cinque anni successivi sono stata controllata ciclicamente, ma non c’era più traccia del tumore. Tutti i valori erano rientrati nella norma.”

Alla gioia della guarigione dal tumore certificata dalla scienza quel 20 settembre del 1996 e reiterata nei mesi successivi, subentra l’immane dolore, due anni dopo, per la morte improvvisa di Cecilia, a seguito di incidente stradale. La perdita di un figlio è un dramma che non si può raccontare a parole.

Solo chi ha provato lo stesso dolore può capire lo strazio di Elena e di suo marito.  Eppure Elena prova a reagire. È guarita dal tumore, ma ricorda ancora le parole del giudice che, da quella notte di novembre 1993, non ha più sognato: La forza che ti guarisce è dentro te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini.

E lei vuole aiutare altri bambini.

Una settimana dopo la morte di Cecilia, la sogna. Sua figlia tiene un bambino per mano. Il messaggio è chiaro ed Elena decide di accogliere un’altra vita nella sua famiglia. Le istituzioni però le sbarrano la strada: hanno già adottato due ragazzi diversamente abili. E lei è sotto controllo medico. Il tumore può tornare ad aggredirla in qualsiasi momento. È una persona a rischio. Lei e suo marito sono già avanti con gli anni. Non possono più adottare altri bambini.

Elena pensa che i bambini si possono aiutare in molti altri modi e così mette a disposizione la sua casa per accogliere provvisoriamente dei bambini in fase pre-adozione. E arriva Andrea. Doveva restare soltanto per qualche mese. E invece diventa il loro quinto figlio. E nell’anno Duemila, così come Rosario Livatino le aveva fatto vedere nel sogno quando l’aveva trasportata in un altro luogo e in un altro tempo, Elena e la sua grande famiglia partecipano al Giubileo con il grande papa Wojtyla. E lì, tra le istoriate mura del Vaticano, racconta la sua storia al papa. E testimonia che la vita è anche altro. Soprattutto altro.

Nei mesi seguenti la guarigione, viene messa in contatto con il parroco di Rosario, padre Li Calzi. Elena scende più volte in Sicilia con la sua famiglia e incontra anche i genitori di Rosario, mamma Rosalia e papà Vincenzo, nella loro casa a Canicattì, al civico 166 di via Regina Margherita. E con loro scambia un abbraccio lungo una vita. Insieme si portano sul luogo dove il giudice è stato assassinato, a ridosso della 640 Ag-Cl. Mettono a dimora una piantina di rose. Poi l’ultima visita, al cimitero, dove Rosario riposa e dove, negli anni lo hanno raggiunto prima mamma Rosalia e poi papà Vincenzo.  

Questa è la sua storia da me raccolta dalla viva voce di Elena Canale Valdetara.

Roberto Mistretta

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