Maysoon Majidi resterà in carcere. La femminista curdo-iraniana, scappata dal regime degli ayatollah per evitare una condanna a morte certa, ha trovato, invece, spalancate le porte del carcere di Reggio di Calabria.
Majidi, che ha lottato per i diritti delle donne iraniane, offesi dalla misogina teocrazia del suo Paese, nel contesto delle proteste innescate a seguito della morte di Mahsa Amini e guidate dal movimento “Donna, Vita, Libertà”, per lo Stato italiano è una criminale.
Majidi, la militante diHana Human Rights Organization, il cui attivismo si prefigge l’obiettivo di fare rispettare i diritti umani nel Kurdistan iraniano, ha scoperto di essere stata accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
Dopo essere approdata rocambolescamente sulle coste di Crotone il 31 dicembre del 2023, a causa del naufragio del natante, per mezzo del quale si era assicurata, insieme al fratello, un passaggio in Occidente, è bastato che alcune informazioni, rese concitatamente alla Guardia di Finanza nelle ore successive allo sbarco, facessero scattare per l’attivista curda l’arresto con l’accusa di essere una scafista.
Il 24 luglio appena trascorso, il Tribunale di Crotone ha respinto la richiesta degli arresti domiciliari, fintantoché si appurassero i presupposti, sui quali pende più di una ambiguità, per i quali si è imbastito il processo.
Molte sono, infatti, le criticità addotte dalla difesa: la dichiarazione resa da Majidi, al momento dell’arresto, di essere una rifugiata politica per la sua attività di militante perseguitata dalla polizia morale iraniana e per nulla tenuta in considerazione dalle autorità italiane; la superficialità delle indagini al fine di accertare la veridicità delle testimonianze; la ritrattazione delle stesse e, per quanto riguarda la contestazione che entra di più nel merito della procedura penale, l’incidente probatorio celebrato cinque mesi dopo l’arresto.
Nel frattempo, Majidi ha intrapreso uno sciopero della fame. Smunta come le accuse che l’hanno imprigionata, continua la sua battaglia di verità contro un verdetto che sembra essere già stato scritto: una pena severissima e degradante – rischia, in virtù del decreto Cutro, la reclusione da uno a cinque anni e una multa di quindicimila euro – perché donna e migrante.
Questa è l’Italia sagomata dall’esecutivo meloniano che, alla ricerca di scafisti in tutto il «globo terracqueo», affolla inutilmente le carceri, criminalizza il fenomeno migratorio e disumanizza le operazioni di soccorso.
Per afferrare le ragioni della carcerazione di Majidi, bisogna, perciò, recuperare il concetto giuridico di crimmigration introdotto di recente nella dottrina giuridica italiana e atto ad indicare la teoria di dispositivi elaborati al fine di criminalizzare lo straniero e di motivare la narrazione dello spauracchio dell’invasione.
Il diritto, strumentalizzato propagandisticamente per alimentare uno stato di tensione sociale perenne, tocca così un alto grado di mortificazione. Le misure giuridiche, infatti, sono costruite per demolire la dignità del migrante attraverso l’esercizio della violenza penale.
Lo straniero, trasformato in un nemico pubblico per il sistema sociale, diventa perseguibile secondo la legge, tanto da giustificare la privazione della libertà personale.
Ciò che è accaduto a Majidi ed in aperta violazione dell’articolo 13 della Costituzione, della cui libertà di circolazione ne è proclamata l’inviolabilità.
Ma la stessa circoscrizione giuridica dello status di scafista rientra nella caccia al clandestino, sovvertitore dell’ordine pubblico. È noto, grazie ad uno studio offerto da un cartello di associazioni impegnate sul tema dell’immigrazione, intitolato “Dal mare al carcere”, che la definizione di scafista copre un ventaglio di condizioni di forzata necessità, dove il capitano delle barche di fortuna è individuato dalle organizzazioni criminali tra i migranti.
Ma per l’ordinamento giuridico italiano vale, con una certa ambiguità, la sovrapponibilità tra lo scafista – il migrante – e il trafficante – l’organizzazione criminale -, il che contribuisce ad associare due soggetti giuridicamente distinguibili.
E la violenza repressiva si scarica proprio sullo scafista, per il fatto che questa figura è facilmente identificabile dalle autorità giudiziarie. Il senso ultimo di un tale approccio è abbastanza chiaro: dare in pasto alla paura collettiva una vittima sacrificale per nascondere, innanzitutto, la grave inadeguatezza delle politiche migratorie di questo Paese.
Se i governi di centro-sinistra, succeduti a più riprese in Parlamento, non hanno saputo smontare la legge Bossi-Fini, il vero strumento che genera le disuguaglianze, l’oppressione e lo sfruttamento – basti qui pensare alle quote dei flussi in base alle richieste del mercato di lavoro – ai danni della popolazione migrante, ora il delirio repressivo del carrozzone guidato dalla Meloni, in nome dell’ossessiva protezione delle frontiere, mostra del tutto la volontà politica di calpestare i diritti umani. E per conseguire questo scopo, il governo di centro-destra non si è trattenuto dal piegare il diritto verso la barbarie.