“L’Europa, storia di una civiltà” di Lucien Febvre: attualità di un’analisi

Andrea Alcamisi
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La città è appena stata liberata. Il nazismo è stato sconfitto a Parigi. Un feticcio insopportabile, una bandiera di resistenza, un pungolo per la coscienza: i lumi, la rivoluzione, la repubblica, le libertà.                             Il professore Lucien Febvre, allora, propone, per gli studenti del Collège de France, una lettura diacronica dell’Europa, quest’ultima osservata non soltanto nei suoi confini geografici, ma specialmente   nei   suoi   risvolti   culturali.   

L’Europa   del   Febvre,   nel   ciclo   delle lezioni   dell’anno   accademico   del   1944-1945   edite   da   Donzelli   nella   raccolta intitolata «L’Europa. Storia di una civiltà», racconta, innanzitutto, sul tramonto del   più   drammatico   conflitto   occidentale   –   la   Seconda   Guerra   Mondiale   –   la storia   di   un   ideale   di   unità,   perseguito   da   re,   imperatori,   intellettuali   e rivoluzionari, in opposizione alla disgregazione delle realtà politiche del proprio tempo.   

Così,   il   franco   Carlo   Magno,   –   secondo   il   Febvre   –   il   primo   uomo   ad immaginare   l’Europa   come   una   fonte   di   una   nuova   civiltà,   reagisce all’indebolimento   dell’organizzazione   politica   romana,   costituendo   il   Sacro Romano  Impero.  E alla morte  di costui, quando l’impero  non  trattiene più  le pulsioni  autonomistiche,  sorgono le monarchie nazionali e con esse le spinte revanscistiche, protagoniste inquietanti del corso europeo.

Nelle pagine del Febvre, il tempo si dipana come una ragnatela, inglobando il passato   e   il   presente   senza   soluzione   di   continuità.   E   sempre   sulla   scia   del rinnovamento di quell’aspirazione all’aggregazione di popoli  diversi, l’Europa, come possibile centro di unità, scivola rapida sulle vicende degli uomini, i quali, per   affermarla,   non   hanno   esitato   ad   esercitare   lo   ius   ad   bellum   o   ad intraprendere   sentieri   più   tranquilli   a   colpi   di   dissertazioni.   

Perciò,   dalla restaurazione   imperiale   perseguita   da   Carlo   V   si   perviene   all’implosione,   a causa   delle   guerre   di   religione,   scongiurata   dall’alba   dell’Illuminismo   e   della sua evidenza più matura: la Rivoluzione francese.

In   ogni   piega   della   ricognizione   febvriana,   dunque,   si   respira   una   tensione morale   vertiginosa   per  una  generazione  che   si   stava  preparando   a  rileggere l’attualità   dolorosa   del   nazifascismo,   dell’occupazione,   della   guerra,   dei tradimenti e delle resistenze. Per questo motivo, l’immagine dell’Europa, che traspare dalla penna dello storico, appare come una necessità improcrastinabile per chiudere definitivamente il conto con le esperienze statali del   primo   dopoguerra   che,   nel   perseguimento   degli   interessi   imperialistici   di espansione territoriale e di dominio dei mercati, avevano acceso l’incubo della morte.   

Meditando   le   riflessioni   febvriane,   si   ha   l’impressione   che   lo   storico recuperi,   forse   inconsapevolmente,   le   concezioni   del   mutamento   alla   base dell’evoluzione delle istituzioni politiche nelle crisi di governo, come si è potuto constatare. In tal caso, la lettura della storia europea si riallaccerebbe all’antica riflessione della questione del decadimento morale delle generazioni umane, le quali misurerebbero il progresso civile sulla tenuta dei costumi ritenuti di volta in   volta   virtuosi   per   la   longevità   della   forma   politica   che   li   governa.   

Ma   la prospettiva febvriana, se allontana l’adagio moralistico, va al cuore dell’analisi delle   fragilità   di   un   progetto   europeo   nel   suo   porsi   come   una   sintesi   di   una univoca   civiltà.   Infatti,   il   cammino   dell’Europa   può   essere   letto   come   un momento dialettico nel senso hegeliano dell’espressione.

Nel suo farsi realtà e, dunque,  nella sua  violenta intrusione   nella  storia,  l’Europa  si è generata per mezzo di una impalcatura di antinomie nel tentativo di formare un baricentro di irradiazione della sua forza politica, e cioè l’essere innanzitutto un corpo che, però, non tiene in conto la somma dei suoi centri, e di quella culturale, e cioè di dotarsi di un’anima che inevitabilmente si presenta scissa quante siano le sue articolazioni. La sintesi è stata devastante per le sorti future del continente.  

Infatti,   l’identità   dell’Europa   è   stata   sempre   costruita   come   un   organismo alternativo ai mondi reputati periclitanti, obsoleti ed incapaci di serrare le fibre dei popoli governati. E questo fin dai tempi di Carlo Magno, perché l’Europa, come concetto storico e geografico, poté levarsi soltanto quando crollò l’Impero Romano   e   di   conseguenza,   quando   l’elemento   culturale   nordico,   e   cioè   la conservazione   della   cultura   latina   e   il   rafforzamento   della   Chiesa   Romana, prevalse sull’elemento mediterraneo che assommava, invece, un mix esplosivo di   frammentazione   politico-culturale.

Il   pensiero   greco   orientale,   l’ortodossia bizantina   e   la   rivoluzione   teosofica   islamica,   per   avanzare   alcuni   esempi   di fenomeni difficilmente assoggettabili sotto una amministrazione valida in ogni situazione,   costituirono   un   ostacolo   al   progetto   riformista   carolingio   teso   ad una organizzazione politica centralista e ad una armonizzazione della sapienza tardo-antica.   

L’Europa   moderna   nacque   proprio   sul   terreno   di   una   grave contraddizione: essa, mentre pensava di associare le parti acefale della vecchia civiltà   romana,   respingeva   ciò   che,   a   suo   dire,   di   romano   non   poteva manifestare,   commettendo   un   errore   geopolitico   che   ancora   oggi   pagano   i popoli   europei.   Infatti,   l’espulsione   della   Grecia,   del   Maghreb   e   del   Medio-Oriente, quest’ultimi laboratori di costruzione di una sensibilità comune, da un ragionamento di unità culturale, prima ancora che politica, continua a marcare in negativo il percorso odierno di unificazione tra l’Occidente e l’Oriente.

E, per non esaurire del tutto l’approfondimento sulla debolezza congenita dell’istituzione   europea,   anche   la   spinta   libertaria   della   Rivoluzione   francese generò   una   antitesi   di   rilievo   nel   processo   di   formazione   europeo.   La degenerazione dello spirito patriottardo, di quell’impeto che in giro per l’Europa aveva   atterrito   come   uno   spettro   i   privilegi   dell’ancien régime,   accelerò   le evidenze   nazionalistiche,   serrando   la   strada   ad   un   progetto   di   convivenza cosmopolitica,   pur   nelle   differenze   culturali   e   politiche,   come   Kant   aveva intuito, osservando con preoccupazione l’ascesa del Bonaparte.

Le recenti elezioni europee hanno chiaramente evidenziato quale sia la posta in gioco per l’immediata postura geopolitica delle istituzioni europee. Si capisce, allora, fin da adesso che l’esito delle urne non abbia comportato esclusivamente un rinnovamento dei partiti nell’arco parlamentare di Strasburgo.

Il   cittadino   europeo, infatti, ha espresso  un   voto   referendario   dai   contorni   politici   netti:   o   di rottura   con quell’antico   retaggio   di   chiusure   egoistiche   e   di   respingimenti   culturali,   per porre  le basi di un progetto  di unità chiaramente contraria  ad ogni  forma  di conflitto   o di compiacente adesione ad una via di regressione che, ambiguamente spacciata come un miglioramento dell’autonomia degli Stati, comporterà un definitivo naufragio della pace tra i popoli, spinti sempre di più sull’orlo di uno sfrenato individualismo solipsistico.

O la democrazia, dunque, o l’imbarbarimento. Su un tale destino il Febvre è stato molto lucido.

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