Riflessione di don Massimo Naro sulla liturgia della Parola nella XXXI domenica del tempo ordinario (anno C)
1. La solennità liturgica di “tutti i santi” e la commemorazione di “tutti i fedeli defunti” quest’anno – più degli altri anni – appaiono strettamente connesse, per il fatto che stavolta cadono rispettivamente di sabato e di domenica, cioè nei due giorni in cui si celebra – già a cominciare dal tardo pomeriggio del sabato – la Pasqua settimanale. Pertanto possiamo meditare, al contempo, sui brani biblici proclamati nella messa d’Ognissanti non meno che su quelli che ascoltiamo ricordando i nostri morti. Del resto, la festa d’Ognissanti ci dice che tutti siamo chiamati a vivere la santità, cioè a stare in intimo rapporto col Signore, che è il Santo dei santi, il cespite sorgivo da cui scaturisce la grazia della santità e in rapporto al quale tutti siamo messi in condizione di poterla attingere a nostra volta. E tutti i fedeli defunti, se stanno assieme a Cristo Gesù fra le braccia di Dio Padre, partecipano della sua santità, nonostante i loro nomi non siano elencati nei santorali ufficiali o non compaiano sui nostri calendari. Festeggiare tutti i santi vuol dire esprimere la consapevolezza credente che tutti coloro che – con Cristo, per Cristo e in Cristo – si ritrovano innestati nell’eterna Agape trinitaria, sono e non possono non essere santi: “tutti i santi” significa “santi tutti”.
D’altronde la pagina evangelica della messa d’Ognissanti è la stessa che viene proclamata nella terza messa del giorno dei morti. Riporta l’annuncio delle beatitudini, che il Maestro di Nazareth fa all’inizio del suo discorso della montagna.
È un insegnamento radicale, che segnala le esigenze evangeliche alle quali ci si deve attenere se si desidera esser davvero discepoli del Cristo. Ed è, altresì, un insegnamento paradossale, perché dichiara beati quelli che – nel nostro mondo – non avrebbero alcun buon motivo per reputarsi felici e contenti: i poveri, chi ha fame e sete, chi è addolorato e soffre, chi è screditato e perseguitato. Per indovinare il vero senso delle beatitudini si deve, comunque, disambiguare il linguaggio con cui sono formulate e che le fa risuonare come affermazioni strane prima ancora che straordinarie. Cosa significa, per esempio, che «beati sono i poveri in spirito, giacché di essi è il regno dei cieli»? I poveri di spirito non sono forse, nel parlato comune, i “pitocchi” (ptōchói è il termine greco che l’evangelista Matteo qui adopera)? E “pitocchi” non è sinonimo di “meschini”, stretti di spalle e con i polmoni asfittici, incapaci di largo respiro, per nulla magnanimi? Può Gesù elogiare individui di tal genere? Le parole, che egli usa per promettere loro la beatitudine eterna, devono certamente avere un altro senso. E, difatti, vogliono dire che i poveri in spirito non sono affatto persone meschine, per niente pusillanimi. Sono, invece, i «puri di cuore», come aggiunge poco più avanti: sgravati da ogni presunzione riguardo a sé stessi e riguardo agli altri. Non vantano alcun merito proprio, non sono autoreferenziali, si svuotano del loro ego e quindi risultano “capaci”, cioè pronti e disposti a ricevere e ad accogliere lo Spirito di Dio, che potrà gridare nel loro petto la medesima invocazione che Gesù rivolge al Padre suo: Abbà, come Paolo spiega nella seconda lettura della seconda messa del giorno dei morti. Essere poveri in spirito – avere e avvertire un forte bisogno di Dio – significa, perciò, immedesimarsi nel Figlio e con lui ereditare il cielo (Rm 8,14-17).
Se il regno di Dio è di costoro, allora è giocoforza che per essere beati si deve assomigliare a loro e, come loro, ci si deve fare discepoli del Cristo. Occorre, insomma, vivere le attitudini evangeliche illustrate nelle beatitudini. Tra queste, tre mi sembrano quelle maggiormente rimarcate da Gesù: la giustizia, la mitezza, la misericordia.
La giustizia è presentata come una necessità vitale, quasi un’urgenza istintiva, al pari della fame e della sete. Ma è pure prospettata come un rischio mortale, alla stregua di una persecuzione in cui si cade innocentemente vittima di insulti, calunnie, riprovazioni e condanne infamanti. È chiaro che Gesù, così, parla della giustizia da lui stesso impersonata nella sua vicenda pasquale. Per essere beati occorre assomigliargli nel suo profilo martiriale, come hanno fatto – solo per fare alcuni esempi “siciliani” – Rosario Livatino e Pino Puglisi.
La mitezza, poi, è presentata come la principale responsabilità dei discepoli verso la storia e il mondo. Il cui destino è, appunto, affidato ai miti e non ai violenti. La violenza, la rapacità, la protervia devastano il presente e pregiudicano il futuro del mondo. Solo i miti erediteranno la terra, assicura Gesù. Ma per ereditare qualcosa bisogna averne il diritto: si dev’essere figli degni di colui che fa testamento. Per questo i miti non possono e non devono restarsene con le mani in mano. Devono operare la pace: saranno così riconosciuti «figli di Dio». Pensiamo a ciò che ha tentato di fare in questa prospettiva, con grande impegno, un altro siciliano come Giorgio La Pira.
Infine, la misericordia. Gesù ne parla ricorrendo a una tautologia: si limita a ripetere che «beati sono i misericordiosi, perché troveranno misericordia». La misericordia gode di una tutta sua sovreccedenza di senso. Non servono aggettivi per qualificarla. Essa, di per sé, basta e avanza. Fa da perno alla beatitudine dei discepoli, poiché li riconduce direttamente a Dio, cioè a colui al quale – metaforicamente – il regno celeste rimanda. Misericordia, infatti, è il suo nome. Essere misericordiosi equivale a essere della stessa “pasta” di Dio. Significa indossare il vestito della festa, intessuto con la medesima stoffa agapica di Dio: chi lo porta con luminosa verità, non sarà cacciato fuori, nel buio, dove ci sarà pianto e stridore di denti. Mi piace pensare così a Biagio Conte e a chi – sempre in Sicilia, a cavallo tra Otto e Novecento – lo ha preceduto nel servizio agli ultimi: Giacomo e Vincenzina Cusmano, Annibale Maria Di Francia e Maria Nazarena Majone, Maria Rosa Zangara, Angelico Lipani e tanti altri “santi della porta accanto” che hanno assecondato l’impeto della carità.
Nel complesso, il vangelo delle beatitudini rivela che la santità (cioè la comunione con Dio, la condivisione del suo regno, la beatitudine) è una questione tutt’altro che iperurania, bensì terrena. È un’avventura storica, non extramondana. Ciò non vuol dire che dobbiamo “farci” santi da noi stessi, come se la santità consistesse nei nostri sforzi personali. Vuol dire, semmai, che dobbiamo farne esperienza qui e ora, umilmente ricevendola e custodendola creativamente, quale prezioso talento da reinvestire e far fruttificare.
2. La santità cristiana è lasciar trasparire la presenza del Signore lì dove la si presume improbabile. Vale a dire nel fondo doloroso e addolorato dell’esistenza umana, nel rovescio della storia, dentro le pieghe strette e le piaghe aperte del mondo, dove il Figlio umanato si è seminato come chicco di frumento tra le zolle. Per tal motivo, la santità è prerogativa di tutti, nessuno escluso. Ed è questa la speranza che sostiene anche il nostro suffragio per tutti i defunti, che certamente – in vita – hanno sperimentato le gioie, ma pure le angosce, di questo nostro mondo.
C’è una reale continuità tra la santità che affonda le radici in terra e la condizione di chi riposa per sempre fra le braccia di Dio Padre. La prima lettura nella prima messa della commemorazione dei fedeli defunti ce lo ricorda, riportando le parole di Giobbe: «Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, senza la mia carne, vedrò Dio. Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non quelli di un altro». Giobbe, il sofferente, ci aiuta a comprendere che, seppure la condizione dei defunti sia ormai svincolata dai condizionamenti terreni (la pelle, la carne), questi stessi hanno nondimeno conferito un’impronta peculiare a ciascuno di loro, plasmandone la personalità, che in Dio non evapora e – piuttosto – viene mantenuta da ognuno. Lo sguardo che infine fisseremo su Dio sarà lo stesso che abbiamo prima rivolto all’ambiente in cui siamo vissuti, alla realtà per la quale abbiamo lavorato, alle persone che abbiamo incontrato, accudito e voluto bene. E in tal modo – come Gesù predicava sul monte – neppure una virgola o un puntino risulteranno inutili, ogni momento di storia sarà salvato, ogni frammento di mondo sarà valorizzato.
A pensarci bene, ogni morte è, in qualche misura, la fine del mondo: del mondo di chi muore, ma anche di parte del mondo di chi gli sopravvive, del mondo che essi hanno abitato insieme. Cosicché in ogni morte anche un po’ dell’esistenza di chi non muore sembra sprofondare nel vuoto. Ma pure attraversa il vaglio della purificazione, depositandosi nella culla dell’essere. Qualcosa di chi continua a vivere nel mondo terreno fa già capolino nell’Eterno, in virtù del ricordo che di lui chi muore porta in sé. In ciò consiste la salvezza universale di cui il cristianesimo parla: non soltanto salvezza di tutti e di ciascuno, ma anche e più precisamente la salvezza di ognuno con gli altri, negli altri e grazie agli altri. Significa, questo, che non ci salviamo solo noi e che non ci salviamo da soli. E ciò vale non solo per le persone umane, ma anche per tutte le altre creature: tutto – ciò che abbiamo coltivato e custodito, e ciò che abbiamo mortificato e sprecato – è raccolto e riplasmato nelle mani robuste e delicate di Dio, mentre noi in Cristo Gesù veniamo avvolti dal suo abbraccio.
È la verità insita nella volontà del Padre stesso, come Gesù insegna nella pagina evangelica della prima messa nella commemorazione dei defunti: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno». Se i nostri occhi scorgeranno questa verità nella vita nostra e altrui, rientreremo nel raggio d’azione della volontà divina, per la quale – come leggiamo nel quarto vangelo – «chiunque vede il Figlio e crede in lui, ha la vita eterna».
Vedere il Figlio nel bel mezzo delle nostre fatiche, è la nostra giustizia. Rendergli testimonianza, è la nostra più efficace impresa di pace. Riconoscerlo qui e ora, ci guadagna la misericordia del Padre. I «giusti», di cui parla il brano di Matteo che ascoltiamo nella seconda messa della commemorazione dei defunti, potranno anche non rendersene pienamente conto, ma resterà il fatto che proprio perché hanno visto – accolto e servito – il Cristo nei suoi «fratelli più piccoli», nello straniero e nel migrante, nel povero e nell’ammalato, nel carcerato e nell’emarginato, avranno pieno diritto a ereditare il cielo.
Don Massimo Naro
fonte Tuttavia.eu 31 ottobre 2025


