Il gioco della vita tra narrazioni e inganni del tempo

Tonino Cala
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Ripensando ad alcuni romanzi molto interessanti che avevo letto tempo fa – “Il male oscuro” di Giuseppe Berto, “Le memorie del sottoscala” di Vittorio Gassman, “La coscienza di Zeno” di Italo Svevo e “La malattia chiamata uomo” di Ferdinando Camon – ho pensato che la vita, nella realtà e nella Storia, può sembrare drammatica e tragica e con nostra sorpresa, sentimento del contrario, può essere buffa, grottesca e comica, se non consideriamo le guerre e gli altri disastri collettivi, diversamente da talune narrazioni consolatorie. In fondo, il comico è l’altro volto – quello capovolto, dissidente, trasgressivo e dissacrante – del dramma umano.

Il finale di “Aspettando Godot” di Samuel Beckett ci fa capire come la vita umana è fragile e ridicola anche nei suoi esiti drammatici e che l’uomo può anche essere poca cosa rispetto allo sterminato universo che luccica di tanta bellezza da ammirare: l’infinito di uno spazio dilatato senza tempo.

Tutto un bluff, tutto una truffa? Anche Freud riteneva che la vita fosse qualcosa di surrettizio ed esposta ad inutile sofferenza, uno scherzo maldestro della casualità contingente, tale da giustificare il suo pessimismo realistico circa la condizione umana e i suoi discutibili destini.

Dobbiamo al padre della Psicoanalisi la più importante delle scoperte in campo scientifico: l’esistenza dell’inconscio, il sommerso nascosto e sconosciuto che può generare desideri, paure, illusioni, disillusioni e tanto altro. E qui la grande trovata di Freud, già presente nella storia del pensiero umano: la vita onirica dentro di noi, tra desiderio e pulsione, sogni ed incubi, odio e amore, miseria e grandezza, felicità e tristezza.

“Ogni adulto convive con il bambino che è stato”, affermava l’inventore dell’inconscio. E se l’adulto è serio e responsabile, il bambino fa le linguacce, sberleffa l’adulto ed è creativo, originale, giocoso, singolare, libero e senza condizionamenti morali. Ai poeti tocca la ventura di rimanere bambini, di giocare con il bambino che hanno dentro, scivolando a volte nell’infantilismo o rimanendo adulti cresciuti per spirito di concretezza vocata al principio di realtà.

Nel teatro o in qualsiasi altra espressione artistica è facile osservare la dialettica bambino-adulto, il moto perenne dell’elasticità vitale, il farsi due dall’Uno, la potenza singolare che si trasforma nella dualità dell’atto.

Cosi anche per la dialettica uomo-donna, l’essere di genere maschile e femminile, l’indubbia bisessualità del genere umano come nella figura rappresentata dall’androgino di Platone, dove la metà maschile cerca e vuole incontrare la sua metà femminile, desiderando realizzare la pienezza umana a causa dell’incompleta diversità donna-uomo che tende alla completa perfezione, mai raggiungibile, mai conclusa in sé.

Quindi il gioco della vita, la dialettica filosofica dell’essere e dell’esistere per sentire e percepire cosa è la vita, in quel moto brillante che spiazza le idealità controverse per ritrovarsi prassi della domanda senza adeguata risposta: chi sono, chi siamo, dove andiamo?

È questo il gioco dell’adulto con il bambino e della donna con l’uomo: il vissuto d’amore e la fede testarda nella domanda che si ripete, ingannando il trastullo quotidiano, il refrain monotono dell’ovvietà banale e, tra le pieghe dell’esistere, il desiderio di un Dio silenzioso che non gioca a dadi.

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