Tira aria di restaurazione. Il Parlamento Europeo, in seduta plenaria dal 16 al 19 Luglio, sta provando a mutare pelle, ma le premesse non sono tanto buone.
La rielezione di Roberta Metsola, alla guida del Parlamento – già data per vincente al primo turno contro la candidata Montero della “Left” – rappresenta un campanello d’allarme per la salute delle istituzioni europee.
Ciò che manca evidentemente alla maggioranza della nuova Europa è il coraggio di scrollarsi di dosso un quinquennio gestito non certo per acume politico. Il sospetto, dunque, di percorre a ritroso un cammino già accidentato è certamente dietro l’angolo.
Basti mettere a confronto le due orazioni delle candidate alla presidenza del Parlamento Europeo, prima che si celebrasse il voto, per cogliere, non senza ironia, che l’elezione della Metsola non appaia così lontana dalla volontà di un ritorno al passato di metternichiana memoria.
Due indirizzi politici, fin dalle prime battute, così netti tali da chiarire la postura dell’Unione Europea di fronte alla crisi globale.
Se la Metsola, nel suo discorso, ha genericamente sintetizzato i capisaldi del neoliberismo – a proposito ha puntualizzato non senza contradizione «free but fair markets» (n.d.r., mercati liberi, ma equi) – toccando anche il tema della continuità del sostegno militare dell’Europa all’Ucraina e quello di un impegno di natura imprecisata in Medio Oriente; la Montero, invece, ha strutturato la dichiarazione di voto sulla prospettiva di un cambio di sguardo dell’Europa, perché, nell’agenda politica delle sue istituzioni, ricompaiano i diritti sociali, rintuzzati dalle politiche di austerità e dalla guerra, evidenziando, in un passaggio, l’ipocrisia dei vertici europei di essere stati troppo timidi nei confronti di Netanyahu che, al netto dello sterminio lucidamente portato avanti in Palestina, al contrario di Putin, gode di stima indefessa.
Soprattutto su quest’ultimo tema, l’impostazione da status quo ante verso cui sta virando il Parlamento è concreta.
Il primo atto politico della plenaria ha confermato la procedura dell’invio delle armi all’esercito ucraino.
Ma così, da un lato, si è fatto il gioco degli amici di Putin, che, come Orban, remano per una dissoluzione, prima che politica, morale dell’Europa e le cui strumentalizzazioni, in merito all’investimento bellico europeo, non fanno che evidenziare la debolezza dell’U.E. di accreditarsi come partner credibile di mediazione, affinché Russia ed Ucraina cessino l’attività belligerante e si siedano ad un tavolo di pace.
Difatti, l’egoismo esterofobo dei singoli Stati ha lasciato gli spazi della diplomazia alla Cina e alla Turchia, per citarne alcune, che sperano che lo scontro si riduca ad una partita esiziale tra Occidente ed Oriente, a vantaggio dei loro interessi di espansione economica e di conquista territoriale.
Dall’altro lato, il sì alla guerra imporrà di conseguenza agli Stati Membri la lievitazione degli investimenti interni nel settore bellico, con la conseguenza diretta di esasperare le politiche dei tagli ai servizi pubblici e di ridurre ad orpelli le materie, quali la sanità, l’istruzione e il lavoro, che favoriscono, invece, la mobilità sociale.
Se il consenso sulla presidenza di Metsola ha liberato, tra i banchi del Parlamento, una nostalgia del tempo che fu, il bis della Von der Leyen, alla guida della Commissione Europea, certifica la paralisi dell’Europa nella ricerca di una svolta radicale.
Il discorso della Von der Leyen, ad apertura delle urne, più che un programma di rinnovamento, sembra piuttosto una verniciatura per accontentare i gruppi politici che convergeranno sulla sua candidatura.
Gli ingredienti della Spitzenkandidatin del Ppe, delle cui imprese politiche pesa di più l’approvazione incostituzionale, a favore della Meloni, dell’esternalizzazione delle frontiere, prima in Tunisia, e poi, in Albania, riportano, infatti, sul piatto una minestra riscaldata più volte nel corso del suo precedente governo: lotta all’inquinamento, ma tempi incerti per la decarbonizzazione dei processi industriali; politica estera condivisa, ma superficialità nella definizione di un progetto di pace che non si limiti essenzialmente alla difesa dell’Ucraina; e, per solleticare le brame dell’estrema destra, militarizzazione dei confini.
Perciò, di tattiche ne ha congeniate a iosa l’U.E., pur di impedirne una implosione.
Si attende, invece, una strategia, forse l’atto più dignitoso di un organismo che, al suo interno, cova il virus dell’eversione.
Dovrebbe preoccupare di molto la costituzione della famiglia europea dei “Patrioti”, formata dalla maggior parte dei partiti di estrema destra e voluta da quell’Orban che prende accordi con Mosca e Pechino, calpestando il garbo istituzionale.
Quel gruppo che applaude al ghigno violento di Trump e che alla democrazia preferisce la mano dispotica di Putin.
Perciò, l’Europa si presenta come un bolide a motore alternato: mentre la parte più cospicua del suo elettorato vota il cambiamento, il Parlamento guarda ancora al Congresso di Vienna. Le sue istituzioni, così, sembrano già essere sfiduciate.