“Rosa Biangardi” rappresenta il compimento di un viaggio teatrale, l’ultimo atto di una trilogia che il Teatro Stabile Nisseno ha voluto dedicare alla famiglia Biangardi, custodi e creatori di memoria collettiva attraverso l’arte e la fede popolare. Se nei due precedenti capitoli – “I Maestri delle Vare” e “A Vara Nova” – abbiamo attraversato la Caltanissetta delle miniere e dei riti, guardando attraverso lo sguardo di Vincenzo Biangardi figlio, in questa ultima tappa ci spostiamo nel tempo e nello spazio: prima del 1886, prima di arrivare a Caltanissetta, prima della morte.
In “Rosa Biangardi” il teatro si fa specchio e sogno. Ci muoviamo tra Napoli, Cittanova… Il palco diventa una casa con molte stanze, ognuna abitata da una memoria, da una voce, da una ferita o da un canto.
Lo spettacolo è pensato come un grande affresco teatrale e musicale: quadri scenici si alternano a momenti di canto, parole a gesti rituali, luce a buio. Non c’è linearità, ma stratificazione. I personaggi appaiono e scompaiono come ricordi. I tempi si accavallano. Ogni scena è una porta aperta sul passato, ma anche una domanda rivolta al futuro.
Il linguaggio scenico oscilla tra realismo e simbolismo. Le scenografie sono essenziali ma evocative. Oggetti che si trasformano, immagini che si sovrappongono. Il suono ha un ruolo centrale: le musiche originali e popolari si intrecciano per raccontare l’inesprimibile, ciò che le parole non riescono a dire.
La voce narrante è corale: un popolo che ricorda, che tramanda, che si interroga. Ma è anche la voce della città, quella Caltanissetta che accoglie e conserva. Le Vare del Giovedì Santo diventano emblema silenzioso di tutto questo: sculture che sono più che sculture, preghiere scolpite, identità condivise.
Alla fine, “Rosa Biangardi” non è solo teatro: è un atto di restituzione. Un ringraziamento a una famiglia che ha inciso la propria esistenza nella carne viva della città. Un invito a non dimenticare che l’arte, quando nasce dall’amore e dalla propria vita, non muore mai.